Cap.42 Affare che scotta

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JANETTE

13:30.

Il sole è più caldo del solito. Tampono leggermente le goccioline di sudore che imperlano la mia fronte, gettando il fazzoletto nella borsa. È diventata una sorta di discarica; c'è di tutto e di più. Per assurdo quando ho davvero bisogno di qualcosa, però, non trovo nulla. Entro nell'enorme grattacielo che ospita la mia banca e dopo aver rilasciato le mie credenziali, attendo che il direttore o chi per lui mi accolga. Tamburello nervosamente le mani sulle ginocchia; ho un groppo in gola e fatico a rimanere calma. Il tempo scorre e aspettare non è mai stato il mio forte. Per assurdo però, mi ritrovo sempre a farlo. In qualsiasi circostanza. È evidente che qualcuno li sopra si diverta nel prendersi gioco di me.

«Signorina Jensen, prego», una voce femminile mi fa rinsavire, attirando la mia attenzione.

Mi alzo con uno scatto che, sfortunatamente, mi fa contorcere in un'espressione di dolore. Seppur leggero, mi ricorda ancora una volta che non mi sono ripresa del tutto dal mio incidente. La donna nota il cambio di espressione e si blocca, squadrandomi.

«Tutto ok?», chiede, con tono premuroso.

«Sì, grazie», mento, portando una mano all'altezza del fianco destro. «Possiamo andare».

La donna sorride appena, riprendendo a camminare a passo svelto. Ci dirigiamo in un'ala appartata della banca; non posso fare a meno di notare quanto lussuosa ed elegante sia. Non è la prima volta che vengo qui eppure è come se lo fosse. Il lusso che permea dalle pareti mi attrae come se fossi una falena alle prese con una luce. Oro. Oro ovunque. Oro nel giallo antico delle pareti stesse, oro nel tessuto delle sedie vintage sparse un po' ovunque nella stanza, oro tra i capelli della donna che mi sta accompagnando. Un uomo in abiti eleganti attende il mio arrivo seduto dietro a una piccola scrivania in legno. Credo abbia l'età di mio padre su per giù.

«Buongiorno», dico, avanzando a passo svelto.

L'uomo si alza, allunga una mano nella mia direzione e ricambia il saluto, sorridendo. La sua stretta è energica, in contrasto con il sorriso spontaneo che alleggerisce la sua espressione seria.

«Prego, si accomodi», mi indica una sedia posta davanti alla scrivania.

Faccio come dice, incrociando le mani sul grembo. Inspiegabilmente, ho l'ansia. Ma d'altronde, come potrebbe non essere così? Sono sempre due milioni e mezzo. È già tanto che io sia riuscita ad arrivare qui senza il bisogno di una bombola d'ossigeno o chissà cos'altro; non ho mai richiesto una quantità così elevata di denaro prima d'ora. Per di più, lo sto facendo per un affare a occhi chiusi. Michael non mi ha mostrato alcuna foto, ha solo descritto quella che presto diventerà la mia casa. Spero solo ne valga la pena. Non so cosa mi abbia spinto ad accettare senza pensarci troppo; forse il bisogno incessante di schiacciarlo al suolo, dimostrando così di essere più di quello che pensa. Ma a quale prezzo?

«Due milioni e mezzo», l'uomo consulta un foglio che ha sulla scrivania, «ne è sicura?»

«Certo che sì», mi affretto a dire, rilassandomi appena.

«Bene signorina Jensen, sarò sincero con lei», poggia il foglio, concentrandosi con lo sguardo su di me.

L'ansia prende il sopravvento al mio interno, imprigionando lo stomaco in una morsa immaginaria. Le gambe diventano un po' molli e sento di aver perso la sensibilità alle dita delle mani. Il respiro diventa più veloce involontariamente e mi ritrovo a fissarlo con aria spaesata o forse dovrei dire spaventata.

«Non può prelevare la somma per intero, oggi», il suo tono è imperativo, deciso. «Concorderà con me che è un po' troppo», continua, ammorbidendosi leggermente almeno nell'espressione.

(UN)fortunately we are in loveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora