Cap.34 Vulnerabili

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JANETTE

Mi ha salvata.

Lo ha fatto senza esitazione, senza battere ciglio.

Mi ha accolta tra le sue braccia, proteggendomi e curando in qualche modo le mie ferite. Quelle fisiche ci metteranno un po' per rimarginarsi ma quelle del cuore, beh, sono già a buon punto.

Michael.

Proprio lui.

L'insopportabile, arrogante, pieno di sé... Michael.

L'uomo che ha confessato di aver avuto paura di perdermi. Forse dovrei ringraziare il fatto che sia sonnambulo; diversamente, non scoprirei tante cose. Gli ho mentito, è vero. Se gli avessi detto quanto ha pianto mentre mi stringeva forte al suo petto, implorandomi di non lasciare il suo fianco, non mi avrebbe certamente creduta. O forse si sarebbe maledetto, alzando così una barriera e non permettendomi più di avvicinarmi tanto a lui. È vulnerabile tanto quanto me. E nonostante proviamo entrambi a negarlo, sappiamo benissimo che siamo destinati a condividere qualcosa. Non so bene cosa, ancora. Ma lo sento dentro di me.

Fisso la strada fuori dal finestrino mentre la musica sovrasta il silenzio che si è creato tra di noi. Ha insistito affinché andassi a lavoro con lui e io ho accettato senza battere troppo ciglio. In fin dei conti, ero già a casa sua. Perché pagare una corsa per arrivare in azienda quando posso arrivarci prima e senza rotture di scatole? Unire l'utile al dilettevole non è stato mai così vantaggioso.

«Smettila», interrompe il silenzio, «sento il peso dei tuoi pensieri sin da qui».

Mi volto nella sua direzione, osservandolo. Sta torturando il labbro inferiore con la mano sinistra mentre tiene il volante ben saldo con la destra. Ha lo sguardo perso nel traffico e non accenna minimamente a distoglierlo dallo stesso. Se non fosse che sto imparando a conoscerlo, penserei quasi che è un duro. Ma è solo una corazza, ne sono sempre più convinta.

«Non dirmi che abbiamo già finito di giocare al gioco del silenzio», lo punzecchio, «ero quasi sul punto di vincere».

«Il premio simpaticona dell'anno va a Janette Jensen, signore e signori», ironizza, inumidendosi il labbro con un gesto fugace.

Seppur per pochi secondi, sento una scossa attraversarmi la schiena.

Respira J, respira. La tensione che senti è solo frutto della tua mente.

«Almeno io posso vantarmi di essere simpatica», lo rimbecco, allungandomi nella sua direzione con il corpo, «tu, invece?»

«Io posso vantarmi di tante altre cose, novellina», scandisce bene il soprannome stupido che ormai mi ha affibbiata.

«Tipo?», lo sfido con lo sguardo, mantenendo pochi centimetri di distanza.

Il corpo si contorce in senso di dissenso e dolore ma non lo ascolto; voglio sentire cosa ha da dire.

Michael sposta lo sguardo su di me per qualche secondo, complice il semaforo rosso che ci inchioda sulla carreggiata.

«Tipo», si avvicina maggiormente al mio viso, «posso vantarmi di fotterti senza bisogno di toccarti e so quanto questo ti fa impazzire», sussurra con voce baritonale, mantenendo il contatto visivo.

Mi sento il respiro mozzato in petto. Deglutisco a vuoto, mantenendo i miei occhi incatenati ai miei.

«Mi fa impazzire nel senso che mi infastidisce», cerco di ridarmi un tono.

«Ti fa impazzire nel senso che godi nel vedermelo fare», torna con lo sguardo sul traffico, «per quanto tu possa mentire a parole, il tuo corpo dice altro. E io sono un ottimo ascoltatore, se ti fosse sfuggito questo dettaglio», rimarca, sornione.

«L'Oscar per il miglior attore non protagonista va a Michael Moore», mi prendo gioco di lui, tornando nella mia posizione iniziale.

Silenzio, di nuovo.

Per fortuna siamo arrivati in azienda. Michael parcheggia velocemente e prima che possa anticiparmi, apro la portiera e mi fiondo fuori dall'auto.

Respiro.

Di nuovo.

«Sicura che vuoi farlo?», chiede, ponendosi al mio fianco.

«Sicura»

Muovo un passo verso l'ascensore e con un'ansia in petto non indifferente, premo il tasto che mi condurrà diretta all'Inferno. Non sarà facile affrontare tutti oggi. Non sarà facile dover fingere felicità quando mi sento morire dentro. Se fossi rimasta a casa, allo stesso modo, avrei sofferto il doppio. Forse lavorare mi aiuterà a svuotare la mente.

«Devo denunciare il furto», dico al mio compagno di sventure, «ho già bloccato le carte di credito. Non avevo molti contanti dietro ma il mio telefono», sospiro, «il mio telefono è andato. E con lui tutte le note contenenti le mie idee sulla campagna e i contatti lavorativi accumulati negli anni», sospiro sconsolata.

«Sono certo che ti verranno idee altrettanto brillanti e ritroverai i tuoi contatti. L'importante è che tu stia bene, J», dice, guardandomi a fondo e sorridendomi in modo rassicurante.

Le porte dell'ascensore si aprono e mentre varco la soglia, sento il cuore spaccarmi in due il petto.

«Forse è meglio che io cerchi una casa qui a Manhattan», dico, senza pensarci troppo.

Michael mi guarda incuriosito; corruga la fronte, poggiandosi con le spalle allo specchio.

«Già, credo sia meglio. Almeno non sarai costretta a dover prendere il treno per andare e venire e potrai vivere tranquillamente».

Sembra che voglia aggiungere altro ma non lo fa.

Il silenzio torna prepotente tra di noi. A cosa stai pensando, Michael? Perché non ti esprimi? Vivrò tranquillamente io o sarai più tranquillo tu nel sapermi al sicuro?

Le troppe domande mi fanno contorcere lo stomaco che, ribelle, emette un suono per niente femminile.

«Gli orchi nelle caverne sono più musicali di te», non perde tempo per prendermi in giro.

«Perché tu sei qui e non nella caverna, allora?», lo rimbecco, spostando lo sguardo su di lui.

Il suono dell'ascensore mi fa sobbalzare, attirando la mia attenzione.

Michael mi sfila davanti, allungando il passo.

Il solito stronzo

Prendo un bel respiro e lo seguo.

Sarà una lunghissima giornata.


(UN)fortunately we are in loveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora