MICHAEL
Inspiegabilmente, il mio risveglio è stato più tranquillo e sereno di quanto pensassi. Dopo averla affrontata in bagno, Janette non ha più tentato la "fuga". Ho capito bene cosa passa nella sua testa e... ha ragione. Avrei paura anche io. Per la prima volta maledico il fatto di avere una fama così negativa a precedermi. Non pensavo che l'avrei mai detto ma Chase non lo rivoglio più al mio fianco. Ok, è stato la mia spalla per anni. Ma Janette è semplicemente Janette. E non sono sicuro di voler rinunciare a lei.
«La colazione è pronta!», urlo, mentre poggio i due piatti sulla penisola.
Con il frigo semivuoto, non ho potuto fare altro se non farmela consegnare. Ho ordinato un po' di tutto; non so cosa preferisca e quali siano le sue abitudini. Non ancora, almeno. Imparerò a conoscerla. Nel frattempo, credo di aver preso l'essenziale per far partire bene la sua giornata. Lo spero, almeno.
«Buongiorno anche a te», mi sorride, entrando a passo lento nella stanza.
«È davvero la mia camicia, quella?», chiedo, osservandola dalla testa ai piedi.
Credo di non aver mai desiderato così tanto che qualcuno indossasse qualcosa di mio come in questo momento. L'azzurro chiaro della camicia mette in risalto la sua carnagione olivastra; i capelli scendono morbidi sulle spalle, addolcendo la sua espressione. È radiosa, perfetta nella sua semplicità. Da mozzare il fiato.
«Sai com'è, hai ben pensato di strappare la mia», ammette leggermente maliziosa.
È vero. Non siamo usciti di casa per quasi due giorni. Presi l'uno dall'altro al punto che abbiamo dimenticato il resto del mondo. Mi sembra ovvio che lei non possa tornare a lavoro con i vestiti indossati il sabato. Jordan se ne accorgerebbe in tempi record e non credo di essere ancora pronto per confessarlo al mondo intero.
Confessare cosa, Michael?
«Se ti dispiace posso...», Janette scuote i miei pensieri, attirando la mia attenzione.
«No, assolutamente. Credo che stia meglio a te che a me», la incalzo, «puoi tenerla».
«Stai scherzando?», avanza fino ad accomodarsi sullo sgabello posto difronte a me.
«Assolutamente no, mai stato così serio in vita mia».
Janette sorride. Il suo naso leggermente arricciato e le sue fossette fanno sorridere anche me. Sembra una bimba quando si lascia andare per davvero. Sono abituato ai suoi sorrisi preconfezionati e studiati. Ecco perché questi momenti sono speciali e preziosi. Senza filtri, senza maschere, senza vergogna.
«È il primo gesto quasi carino che mi riservi», abbassa lo sguardo sul piatto, «come sapevi che avevo voglia di pancake e mirtilli?»
«Non lo sapevo», ammetto, afferrandone uno e portandolo alla sua bocca. «Ho preso un po' di tutto così da permetterti di avere ampia scelta», accarezzo il suo labbro inferiore con il pollice, «e comunque, non è il primo gesto quasi carino che ti riservo».
Janette mastica lentamente, soffermandosi con lo sguardo sulle mie labbra prima, sui miei occhi poi.
«Quale sarebbe stato il primo?», mugugna, mandando giù il boccone.
Sorseggio lentamente il caffè, godendomi la sua espressione colma di curiosità. I suoi occhi scuri saettano velocemente sul mio volto, cercando di cogliere anche il più piccolo dei particolari.
«Peak», scandisco bene il nome, «non ti viene in mente nulla?»
Lascia la forchetta al lato del piatto, incrocia le braccia sulla penisola, osservandomi con sguardo rilassato. Non c'è provocazione nei suoi occhi e non c'è quell'aria di sfida che solitamente aleggia tra di noi.
«Come potrei dimenticare quella serata?», risponde a tono, mantenendo quel sorriso da capogiro stampato sul viso. «Mi hai ricordato che gli esseri umani non sono così pessimi, in fondo».
Il cuore fa una capriola. Piccola. Impercettibile. Ma la fa.
«Janette Jensen e l'antipatia verso il genere umano, chi lo avrebbe mai detto», ironizzo, poggiando la tazza sul piano. Ho bisogno di spostarmi in un territorio neutro o finirò per dire cose che ancora non posso permettermi di dirle.
Mi dà uno scappellotto leggero sull'avambraccio, seguito da un finto broncio.
«Non oserò più complimentarmi con te», inforchetta l'ultimo pezzo di pancake, «anche se sicuramente non correrò il rischio».
«Ne sei sicura?», mi allungo nella sua direzione, sfiorandole appena il naso.
Mastica molto lentamente mentre il suo respiro, al contrario, è più veloce. Percepisco quanto la mia vicinanza la stia turbando ora; le sue guance hanno preso velocemente colore e le sue iridi si sono rimpicciolite.
«Sicura», bisbiglia con voce flebile.
Sposto una ciocca di capelli dietro al suo orecchio, temporeggiando quanto basta per far scattare in lei quella reazione. Accavalla le gambe freneticamente mentre si tende maggiormente in avanti, arrivando a sfiorare le sue labbra con le mie. Le schiude appena invitandomi a varcare la soglia del paradiso ma... mi ritraggo. Ritraggo la mano, torno nella mia posizione iniziale e stabilisco una distanza tra di noi che mi pesa ma che allo stesso tempo è necessaria.
«Vedremo, novellina», le do le spalle per provare a camuffare la voglia che ho di perdermi tra le sue labbra.
L'eccitazione attraversa la mia spina dorsale, facendomi rizzare tutti i peli presenti in corpo. Voglio perdermi nella sua bocca. Voglio stringerla tra le mie braccia e lasciare che tutto il desiderio si sprigioni nel migliore dei modi nonché l'unico da me conosciuto. Voglio sentirla fin dentro le ossa.
La vibrazione del suo telefono attira la mia attenzione. Mi volto nuovamente nella sua direzione e noto che il suo sguardo è colmo di preoccupazione.
«Chi è?», le parole mi escono di bocca in un tono più cupo e basso del previsto.
«N-nessuno», balbetta, bloccando lo schermo con un gesto fugace. «Preferisci andare a lavoro insieme o separati? Non ne abbiamo parlato».
Sospiro, stringendo i pugni lungo i fianchi. Ha cambiato atteggiamento e umore, soprattutto. È tesa e mi sta sicuramente nascondendo qualcosa.
Respira Michael, respira.
«Per me non ci sono problemi, scegli tu», dico, infilando i piatti sporchi nella lavastoviglie.
Janette si zittisce di colpo. Chiudo lo sportello con un colpo secco e il tic dell'avviamento fa tornare entrambi con la testa sul pianeta Terra. Si alza con uno scatto, lisciandosi la camicia lungo le gambe e sistemando i capelli su un lato. Il suo collo troppo esposto fa scattare in me la voglia improvvisa di costellarlo di baci. Elimino subito quell'immagine dalla mia mente e dopo essermi assicurato di aver lasciato tutto in ordine, infilo la giacca e aspetto che Janette mi dica il da farsi.
«Allora?», la sollecito con tono pacato.
«Andiamo insieme, ha più senso. Siamo quasi vicini di casa, no?»
Giusto. Avevo dimenticato questo piccolo particolare per qualche secondo. Vicini di casa, colleghi di lavori, amanti. Bel quadro del cazzo. Soprattutto sull'ultimo punto. Non so definire "cosa" siamo ma so bene cosa vorrei che fossimo: di più. Di più di tutto.
«Già», apro la porta, invitandola ad uscire, «vicini di casa», continuo, chiudendola con un colpo secco.
La sento sospirare alle mie spalle.
Sarà una lunghissima giornata.
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(UN)fortunately we are in love
Literatura KobiecaJanette Jensen ha trent'anni e per la prima volta in vita sua da quando si è laureata in economia e marketing, è stata contattata per lavorare in una delle più prestigiose aziende di Manhattan: la Royals & Fashion. Michael Moore ha trentatré anni, u...