Cap.35 Fly down, mr Moore.

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JANETTE

Sento gli occhi di tutti addosso. Li ignoro, fingendomi sicura di me. La verità è che vorrei sprofondare tre metri sottoterra. Forse sarebbe stato meglio rimanere a casa.

Ma che dici, J? Sono solo lividi, passeranno.

La coscienza, come sempre, ha la meglio. Continuo a camminare lungo il corridoio puntando dritto verso l'ufficio di Curtis. Voglio che lui mi veda prima che qualcuno possa accennare a quanto successo. Il chiacchiericcio da casalinghe non mi è mai piaciuto; a maggior ragione devo battere sul tempo i miei colleghi.

Busso alla porta energicamente, spostando il peso da una gamba all'altra per ingannare l'ansia.

«Avanti!», il vocione di Curtis invade le mie orecchie.

Prendo un bel respiro ed entro nella stanza.

Ha il capo chino su dei fogli e presta poco attenzione alla mia presenza.

Schiarisco la voce, attirando finalmente il suo sguardo su di me. Strabuzza gli occhi, una scintilla di paura e curiosità li attraversa. Si alza con uno scatto, raggiungendo il mio fianco.

«Janette cosa ti è successo?», mantiene la distanza minima seppur con non poche difficoltà. Lo vedo che vorrebbe tentare in qualche modo di rassicurarmi ma è come se avesse paura di poggiare anche un solo dito sulla mia pelle.

«Sono stata scippata», dico tutto d'un fiato, «scusami se sono piombata qui senza preavviso, so che lo odi. Tuttavia, ho preferito avvisarti io. Sai, in azienda già mi guardano abbastanza male», abbasso lo sguardo, imbarazzata. Sento il calore divamparmi lungo le guance e non so se io sia più dolorante ora per la ferita ancora non rimarginata o per il troppo chiacchiericcio che ho già attirato su di me.

«Non devi scusarti», sussurra con voce quasi strozzata, «l'importante è che tu stia bene. Se vuoi, posso darti due o tre giorni di congedo», continua, abbassandosi appena per guardarmi negli occhi.

Sembra un papà alle prese con la propria figlia scapestrata. Lui sta indossando la corazza al posto mio, sta raccogliendo il mio dolore e sta provando a trasformarlo. Io invece, al contrario, questo dolore lo voglio sentire fin dentro le ossa. Lo meritavo? Sicuramente no. C'è di peggio al mondo? Assolutamente sì. Eppure sento che qualcosa dentro di me si è rotto. Non ho mai nutrito chissà quale grande fiducia nell'essere umano ma ora più che mai sento che ho bisogno di alzare un muro. Anzi, un'intera recinzione. Attiro tutti per i miei soldi. Non per la mia personalità, per il mio carattere o chissà per quale altro motivo. Per i soldi. I soldi della mia famiglia. La mia più grande colpa è essere figlia di un grande uomo d'affari. Come se avessi scelto io di nascere nella "famiglia giusta". E più passa il tempo, più mi rendo conto che questa è stata più una maledizione e non un privilegio. Mi sento così stanca. Stanca di dover combattere ogni giorno per affermare quello che è il mio posto nella società e nella vita in generale.

Jordan mi ha riferito i diversi rumors sul mio conto; qui la maggior parte dei dipendenti pensa che io sieda su quella sedia a causa di mio padre. Non per merito. Per mio padre. Come se la laurea a pieni voti l'avesse conseguita lui. Come se aver lavorato per anni alla mercé di qualsiasi azienda fosse stata una passeggiata di salute. La verità è che io questo posto me lo sono sudata. E non importa quanto tempo impiegherò prima di farlo capire agli altri: da qui non vado via.

«Grazie ma no, preferisco lavorare», rispondo secca. Lasciarsi travolgere dalle emozioni non è un'alternativa valida ora, impietosire men che meno. «Volevo solo avvisarti», concludo, incrociando le braccia al petto.

Curtis indietreggia, tornando alla sua posizione iniziale. Si accomoda sulla sua poltrona in pelle nera e assume un'espressione seriosa.

«Bene allora voglio che tu e Michael mi presentiate la bozza della nuova collezione entro questa sera», impartisce ordini, chinando nuovamente il capo sui fogli.

(UN)fortunately we are in loveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora