JANETTE
Il suono della sveglia mi fa sobbalzare, spingendomi ad aprire gli occhi più velocemente di quanto io sia solitamente capace a fare. Ho un'ora a disposizione prima di prendere il treno. Siamo a martedì e ne ho già le scatole piene. Spero di concludere il contratto di compravendita della casa nei prossimi giorni al massimo. Mi siedo sul bordo del letto e rifletto sul da farsi. Sarà una lunga giornata. Curtis ci sta mettendo alle strette e se la memoria non mi inganna, oggi dovrebbero arrivare i cosmetici targati White Enterprise. Lo shooting fotografico con la modella selezionata per la campagna dovrebbe essere alle quindici. O forse alle sedici. Troppe informazioni per una mente sola. Essere il brand manager di un'azienda così facoltosa ha sì i suoi pro ma ha anche molti contro. Tipo questo. Dover ricordare tutti i dettagli è difficoltoso per una come me che non ha mai spiccato per memoria a lungo termine. Anche se, ad essere onesti, ricordo ancora cosa mi scrisse quello stronzo del mio ex a Natale del 2010. Insomma, la mia memoria ha delle preferenze per i ricordi taglienti e dolorosi e non per le cose serie e con il massimo della priorità. Bella merda. Sbuffo, alzandomi e trascinandomi verso il bagno. Medico la ferita – ne ho le scatole piene anche di questa – e mi do una sistemata. Raccolgo i capelli in una coda morbida, lasciando dei piccoli ciuffetti fuori da essa, indosso un tailleur nero composto da giacca e pantalone, sneakers e sono pronta per l'ennesima giornata nella jungla. Spruzzo un po' di profumo e dopo essermi truccata nel migliore dei modi, applicando l'eyeliner come meglio riesco, sono definitivamente pronta.
«Ho ancora cinque minuti, bene», dico, osservando l'orario sull'orologio posto al centro della parete.
Preparo un caffè doppio e addento una brioche di quelle confezionate. Mi pento quasi subito di aver preferito questa a quella calda e appena sfornata del bar. Scrollo le notizie sul telefono mentre continuo a mangiucchiare la mia colazione e con immenso stupore, noto che Michael non ha scritto più nulla dopo il nostro breve scambio di battute. Non so perché ma in fondo un po' ci speravo; speravo che si facesse nuovamente vivo. Sarà. Comunque dovrò affrontarlo in azienda. E non sarà una passeggiata di salute. Come ogni giorno da quasi tre mesi a questa parte, d'altronde.
Distolgo l'attenzione dall'argomento Michael e mi fiondo fuori di casa; devo raggiungere la stazione in fretta. Ho procrastinato, approfittando del tempo a disposizione e ora sono in ritardo. Dio, sono l'unica persona in grado di mettersi nei guai nonostante possa evitarli. I guai, intendo. Anche se sono sempre più convinta che vengano loro a cercarmi. Ad esempio, il mio ultimo guaio, ha due occhi azzurri color mare e folti capelli corvini. Un sorriso da capogiro e sguardo furbo. Un guaio bello grosso in cui mi sono buttata a capofitto quasi completamente con i miei piedi. Nessuno mi ha spinta. Ma io ci sono finita comunque.
Mi faccio largo tra la gente annoiata che si reca a lavoro, spalleggiando qualcuno e scusandomi con qualcun altro. Detesto il caos, detesto la gente. È il martedì più lunedì di sempre. Ringrazio il mio corpo per essere guarito quasi totalmente del tutto altrimenti non avrei potuto fare ogni mattina questo tour de force. Riposo forzato disse il medico. Combattere con unghia e denti rispose Janette. Non sono abituata a starmene con le mani in mano, distesa in un letto, ad aspettare la mia sorte. E nonostante abbia fatto un po' male all'inizio, sono felice di aver ascoltato il mio sesto senso.
Arrivo giusto in tempo per la corsa delle sette. Ce l'ho fatta, nonostante il fiatone e i polmoni che mi bruciano dentro per lo sforzo improvviso. Mi accomodo in un posto isolato e infilo le cuffiette. Chiudo gli occhi e mi godo gli Arctic Monkeys.
Crawling back to you
Ever thought of calling when you've had a few?
Cause I always do
Well baby I'm too busy being yours to fall for somebody new
Now I've thought it through
Crawling back to you
Pagherei per sentire qualcuno cantarmi questa parole anche solo per un secondo. La voce di Alex Turner incendia le mie orecchie e il mio basso ventre, spingendomi a serrare le cosce a causa di un riflesso spontaneo. È lui che ascolto ma la mia mente è altrove. Troppo altrove. Il cuore prende a scalpitarmi in petto e penso che potrebbe sfondare la cassa toracica se solo potesse raggiungere chi da lui desiderato. Peccato che io non voglia che lo faccia. Né oggi, né mai. Non sono sua. Non lo sarò mai.
Arrivo a Manhattan con dieci minuti di anticipo. Mi dirigo in ufficio con molta calma, godendomi ciò che mi circonda. Dato l'orario, tutto ciò che vedo sono uomini e donne fasciati nei loro abiti super costosi, in procinto di recarsi a lavoro. Proprio come me. Un aroma intenso di caffè e cannella invade le mie narici; biscotti appena sfornati, posso percepirne il sapore sulla lingua. Lo stomaco si ribella in un piccolo lamento e le parole di Michael affiorano alla mia mente. Mi ha davvero definita troll da caverna? Sorrido ripensando a quello stupido battibecco. La verità è che lui, nella mia caverna, ci dormirebbe molto volentieri. Solo che non vuole ammetterlo.
Alzo lo sguardo, soffermandomi sulla maestosità dell'edificio che ospita il mio ufficio. Non mi abituerò mai a tanto. Il venticello freddo fa ondulare la mia coda, rizzando i peli presenti sul collo. Un brivido improvviso anima tutto il mio corpo, spingendo i miei piedi in avanti. Devo entrare se non voglio che il freddo primaverile mi faccia ammalare. Manhattan è un po' assurda quando si tratta del clima delle stagioni; non ha mezze misure. E quest'anno ha deciso che, anche se siamo all'inizio della Primavera, il sole non è ancora pronto per riscaldare come si deve.
Saluto la receptionist e mi reco all'ascensore, come sempre. Digito il tasto numero dieci e attendo che arrivi la mia ora. Ho sempre l'ansia che io possa trovare qualche spiacevole novità al mio arrivo qui di mattina. Non so perché ma qualcosa mina la mia tranquillità. Qualcosa o qualcuno. Devo ancora capirlo bene.
«Good morning, baby», Jordan mi affianca, salutandomi.
«Buongiorno anche a te», gli faccio un cenno, «di buon umore, stamattina?»
«È un nuovo giorno», torna con lo sguardo fisso sull'arcata dell'ascensore, «bisogna sempre iniziare con il piede giusto».
Beato te, Jordan. Beato te.
«L'ultima volta che mi sono alzata con il piede giusto ho rischiato di avere il cranio frantumato in mille pezzi», ironizzo.
«Baby, è meglio che tu continui ad alzarti dal lato sbagliato, allora», mi rimbecca.
Scoppiamo a ridere entrambi.
Il dong dell'ascensore ci riporta con la mente nell'azienda. Jordan si ferma al terzo piano mentre io salgo verso il Paradiso. O l'Inferno. Dipende dai punti di vista.
«Più tardi salgo da te per lo shooting, vuoi che ti porti un caffè o cose del genere?», mi dice, mentre distrattamente controlla il telefono.
«Se ti va, mi farebbe piacere», provo a sbirciare sul suo schermo.
Noto che sta scambiando dei messaggi con un certo George. Chi è George, ora? Settimana scorsa usciva con un certo Dustin, ora questo George. Capire Jordan rimarrà l'impresa più ardua.
«Smettila di curiosare», mi ammonisce, «doppio, con una zolla di zucchero e un po' di cannella?»
«Trenta e lode, esame superato», gioco, cercando di guadagnare il terreno perso poco prima.
Arriviamo al suo piano e mi saluta velocemente prima di abbandonarmi nuovamente a me stessa.
«Bene, posso farcela», mi dico, autoconvincendomi.
Eppure, quella strana ansia da "danni in arrivo" non abbandona il mio stomaco.
Cosa c'è che non va in te, Janette?
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(UN)fortunately we are in love
ChickLitJanette Jensen ha trent'anni e per la prima volta in vita sua da quando si è laureata in economia e marketing, è stata contattata per lavorare in una delle più prestigiose aziende di Manhattan: la Royals & Fashion. Michael Moore ha trentatré anni, u...