CAPITOLO 47 ~ Spring Day

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CAPITOLO 47
Spring day

La sveglia era suonata alle 6:30 in punto. Aveva dimenticato che era domenica e che aveva un jet lag dal quale riprendersi.
Per tale ragione, quella sveglia, ora, giaceva per terra, divisa in due parti, dopo aver “cantato” per l’ultima volta.

Jungkook non era mai stato un tipo dai modi troppo gentili, ma ultimamente stava davvero facendo sfoggio della parte peggiore di sé, che un barbaro a confronto sarebbe risultato più civilizzato. 

Si era pentito amaramente di aver dato retta a quella vocina nella testa che gli aveva suggerito di distrarsi per qualche ora, appena rientrato dal suo viaggio, e adesso doveva pure fare i conti con i postumi della sbornia.

A New York non era stato tentato neppure una volta di entrare in un pub a bere fino a dimenticarsi il proprio nome, ma appena atterrato a Seoul era stato il suo primo pensiero, forse perchè gli faceva male restare a lungo in casa sua -che conservava ancora il profumo del modello-, o forse perchè si era reso conto che quella breve fuga non aveva risolto il suo malessere interiore, ma lo aveva addirittura accentuato.

Quella sera non si era dato limite, né contegno.
Se doveva stare in mezzo alla gente, doveva farlo il meno lucidamente possibile, o sarebbe stato soltanto l’ennesimo tentativo di “evasione” fallito dalla sua coltre nera.

In vita sua, non era mai arrivato a ridursi così per qualcuno. In realtà, neppure imputava più la colpa a Taehyung per come erano andate le cose, spettava a lui per primo impedire di lasciarsi coinvolgere fino a quel punto, infrangendo la promessa fatta a sé stesso anni prima, e ora, si ritrovava a pagare le conseguenze del suo tradimento.

La colpa era unicamente sua, non di Taehyung.

Taehyung.

Per quale assurda ragione le sue labbra sapevano di mirtillo? E perché le sue mani conservavano quell’inconfondibile nota legnosa di patchouli che poteva appartenere solo a una persona?

La sua mente, ieri sera, era davvero così fottuta dall’esserselo immaginato insieme a lui?

A sprazzi, gli si ripresentarono immagini della notte passata e davvero non poteva credere di essersi reso così patetico.
Ricordava di essere arrivato allo Zanzibar che traboccava già di persone. Un paio di ragazze l’avevano “adescato” subito, senza dargli neanche il tempo di togliersi il giacchino in pelle, ma lui era ancora troppo sobrio per dare corda alle voglie di un paio di ragazzine ingorde. Le aveva liquidate senza degnarle neanche di risposta, le aveva praticamente ignorate, dando priorità al suo bisogno primario in quel momento: bere. Bere fino a stare male; bere fino a perdere i sensi; bere fino a dimenticare il suo nome e il motivo per cui si era recato in quel locale.

Era certo di doversi scolare almeno un paio di bottiglie di soju da solo prima di risvegliarsi in un letto d’ospedale, e invece, con suo enorme dispiacere, si era reso conto che già con tre bicchieri, la sua mente aveva cominciato a vaneggiare.

Al quarto bicchiere, era convinto di avere delle allucinazioni.
Non riusciva più a distinguere i volti delle persone intorno a lui. Le luci stroboscopiche erano diventate fastidiose e la musica era solo un infernale rimbombo nella sua testa, eppure, tra tutto quel caos, in mezzo a tutti quei visi sfocati era riuscito a scorgere lui, l'unico, la cui immagine arrivava nitida al suo cervello e ai suoi occhi.
Lo aveva proprio lì di fronte, in una visione troppo eterea persino per la sua immaginazione.

Il bianco candido dei suoi abiti spiccava tra l’ammasso scuro di gente che lo circondava. La sua maglia scollata fino al petto e lasciata scivolare da un lato fuori dai pantaloni, modello capri, cambiava colore e sfumature a seconda del fascio di luce che la colpiva.

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