Non mi accorsi nemmeno di essermi addormentata, fino a quando un lieve spiffero di luce entrò nella stanza, illuminandone le pareti bianche. Mossi una mano, felice di non sentire più gli aghi fastidiosi delle punture sulle dita, poi aprii gli occhi, focalizzando lentamente ciò che mi circondava. Durante la breve perlustrazione della stanza, notai una piccola montagnetta di vestiti puliti sul letto accanto al mio e un paio di ballerine posate lì vicino.
«Ellie?». La voce di Steven risuonò piano, come se avesse paura di spaventarmi. Entrò nella stanza e richiuse la porta dietro di sè. Aveva un'aria insolitamente felice e un piccolo sorriso sulle labbra.
«E' successo qualcosa?» chiesi, curiosa di sapere il motivo della sua allegria.
Mi prese la mano e accarezzò le cicatrici che la ricoprivano, segni di ferite ormai del tutto guarite.
«Ho parlato con il Dottoc McCray e ho firmato le tue dimissioni. Da oggi si torna a casa» affermò entusiasta. Una sensazione di sollievo mi pervase, facendomi quasi piangere di gioia. Tuttavia, la paura di non riuscire a riprendere in mano la mia vita una volta fuori da lì, era quasi più forte dell'eccitazione.
«Quei vestiti sono per me?» domandai, alzandomi piano sui gomiti per evitare di farmi male. I muscoli sembravano ribellarsi ad ogni mio movimento, ma l'adrenalina era più forte del dolore. Steven annuì e mi lasciò sola, concedendomi un pò di tempo per lavarmi e cambiarmi. Pamela mi raggiunse in un attimo, aiutandomi a scendere dal letto e riacquistare equilibrio sui miei piedi instabili. Indossai la maglietta blu e i jeans che Steven aveva portato e mi specchiai, pronta per ammirare la nuova Ellie riflessa davanti a me.
Le bende bianche mi ricoprivano ancora la testa, e sarebbero rimaste lì ancora per qualche settimana. Avevo perso molto peso e le mie guance ossute avevano perso completamente colore. Pamela mi porse un piccolo pennello sporco di fard.
«Coraggio Ellie, presto tutto questo sarà solo un brutto ricordo» disse, e io mi fidai subito delle sue parole, perchè dentro di me sentivo che prima o poi ogni cosa sarebbe tornata al suo posto.
Il Dottor McCray mi ripeteva spesso, durante le nostre sedute, che l'importante era pensare positivo. "Ci sto provando" pensai, anche se era davvero difficile.
Diedi un ultimo addio alla mia stanza e raggiunsi la hall dell'ospedale aiutandomi con una stampella, mentre Steven e Daniel caricavano le valigie nel portabagagli. Quando arrivammo in hotel non esitai un attimo a scendere dalla macchina, spinta dalla foga di arrivare nella mia stanza. Speravo di trovare qualcosa che mi aiutasse a ricordare qualcosa in più rispetto a quello che ero riuscita a mettere insieme durante le ultime settimane in ospedale, ma non avevo idea di cosa cercare. Una foto? Un libro?
Aprii la porta e trattenni un urlo, colta di sorpresa. I miei genitori si alzarono immdiatamente dal letto e mi vennero incontro, circondandomi in un abbraccio soffocante. Mia madre cominciò a farmi delle domande, ma notai che rispondeva puntualmente ad ognuna al posto mio, così capii che non era necessario che le prestassi attenzione e la cosa migliore era che cominciassi la mia ricerca in giro per la stanza. Aprii uno dei cassetti del comodino, ma non trovai nulla, così come sul tavolo e sul letto. Nel momento in cui scorsi un piccolo foglietto spiegazzato sotto al letto, qualcuno aprì la porta della stanza, bloccandosi sull'uscio. La osservai e la mia mente formulò involontariamente un nome. Dana.
La ragazza bionda era immobile, con lo sguardo diretto verso mio padre. Mia madre aveva smesso di parlare, sorpresa del suo arrivo. C'era tensione, ma non riuscivo a capire da cosa scaturisse.
«Chi è?» chiese mio padre, aggrottando le sopracciglia. Il suo sguardo era confuso, mentre studiava con attenzione la nuova arrivata.
Mi ricordai improvvisamente del foglietto che avevo raccolto da terra. Lo guardai e in un attimo venni catapultata nel passato, insieme a quella ragazza bionda, e trovai quella che mi sembrò la risposta più giusta alla sua domanda. «Lei è mia sorella. Non ricordi?».
La ragazza sgranò gli occhi, puntandoli prima su di me, poi su mia madre, poi su mio padre. Sentii di aver commesso un grave errore, anche se non riuscivo a capire perchè le mie parole avessero provocato quella situazione imbarazzante. Guardai nuovamente la foto e il ricordo della nostra conversazione arrivò all'improvviso, come un'illuminazione. Mi coprii la bocca con le mani, consapevole di aver appena innescato una bomba a olorogeria che sarebbe scoppiata non appena mia madre avesse fatto due più due. E non fu così difficile, considerando la somiglianza tra me e Dana e il profondo silenzio di mio padre.
«Mamma...» mormorai, ma non riuscii a completare la frase perchè era già corsa fuori dalla porta, lungo il corridoio. Mio padre le corse dietro, sperando di riuscire a rimediare al guaio che avevo causato. Dana mi lanciò uno sguardo carico di preoccupazione e poi sparì anche lei, chiudendo la porta alle sue spalle. Una sensazione di sconforto mi assalì, mozzandomi il respiro. La testa cominciò a girare e fui costretta a chiudere gli occhi per qualche istante mentre tentavo di raggiungere il letto.
Avvertii un brusio lontano, simile al rumore di due bacchette che percuotevano un tamburo, ma non riuscii a capire da dove provenisse. Mi portai una mano alla testa e la pressai con forza sulle bende, come se volessi fermare la confusione che mi impediva di focalizzare ciò che mi circondava. Nel silenzio della stanza sentii una voce, poi due mani che mi afferravano i fianchi, e infine il tessuto morbido delle lenzuola sulla pelle. Schiusi gli occhi e riuscii a distinguere gli stessi occhi verdi del ragazzo che, qualche giorno prima, era venuto a farmi visita in ospedale. Lo stesso ragazzo che mi aveva lasciata senza alcuna spiegazione dopo quel bacio che non avrei potuto mai dimenticare. Non avevo ancora capito quale fosse il suo nome e cosa provassi per lui prima dell'incidente, eppure non esitai un attimo quando mi abbracciò, accarezzandomi la schiena con piccoli movimenti delicati.
«Ellie...» mormorò. Nonostante provasse a nasconderlo, la sua voce si velò di un'improvvisa tristezza.
Mi concessi qualche secondo tra le sue braccia, fino a quando la testa non smise di girare. Il Dottor McCray aveva parlato di possibili attacchi di panico, ma non avevo mai pensato che potessero accadere davvero. "E' impossibile pensare positivo, adesso" mi dissi.
«Va meglio?» mi chiese.
«Non saprei» farfugliai. «Mi fa male la testa».
Mi scompigliò scherzosamente i capelli e io arricciai il naso, dimenandomi per allontanarlo. Lo sentii trattenere una risata e solo dopo mi accorsi che stavo sorridendo anche io.
«Grazie» dissi, nel modo più sincero possibile. Se non fosse arrivato lui probabilmente sarei stata ancora nel pieno di quell'assurda crisi.
Incrociai il suo sguardo e notai che mi stava fissando. Mi chiesi se avesse visto i miei genitori uscire dalla stanza, ma non ci fu bisogno di domande.
«Ho visto quello che è successo. Vedrai che le cose si aggiusteranno» affermò. Il mio sorriso scomparve, sostituito da un'espressione infastidita che non provai a nascondere.
«Non ho più bisogno di gente che mi ripeta che le cose andranno meglio. Di false speranze ne ho avute fin troppe da un pò di tempo a questa parte».
«Per quale motivo pensi che siano false?» indagò, accigliato.
«Quanti altri segreti aveva la mia vita prima dell'incidente? Quante cose succederanno ancora, prima che io possa recuperare completamente la memoria? Ho bisogno di risposte, non di speranze».
Il ragazzo sembrò sorpreso dalle mie parole, ma sulle sue labbra notai un debole sorriso che faticava a venire fuori.
«Che c'è?» chiesi.
«Sai qual era il tuo unico difetto prima di perdere la memoria?».
Scossi la testa e cercai di incrociare i suoi occhi, che però erano bassi, rivolti alle lenzuola, come se fosse imbazzato dalla sua affermazione.
«Avevi un universo dentro di te, ma ti ostinavi a tenerlo nascosto. Avevi mille segreti, mille ripensamenti, provavi mille emozioni diverse, ma lasciavi che tutto rimanesse lì, dove si trovava, e sorridevi per mascherarlo. Solo adesso mi sono reso conto che, per quanto possa starti vicino, non arriverò mai a conoscerti fino in fondo. Così come non ci riuscirà nessun'altro. Se vuoi sapere chi sei non devi chiedere. Dentro di te hai tutte le risposte che cerchi».
Rimasi in silenzio, mentre la sua mano scivolava sul mio petto, posandosi sul cuore. Lo sentii aumentare i suoi battiti, impazzito, ma il pensiero di ciò che aveva detto era più forte della sensazione di imbarazzo che emanava la sua vicinanza.
Ero davvero così, prima che tutto accadesse? La risposta mi apparve davanti gli occhi, annebbiando tutto il resto. Qualcuno che mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stessa c'era. Non ricordavo che aspetto avesse, ma il solo pensiero che questa persona esistesse e fosse lì, da qualche parte, riusciva a farmi stare bene. Avrei voluto sapere chi fosse, vederla anche solo per un secondo. Lo desideravo con tutta me stessa. Chi era Niall? Perchè il suo nome aveva un potere così forte su di me? Mi sentivo legata a lui, come una barca alla sua ancora. Ma così come avrebbe potuto salvarmi, la mia ancora avrebbe anche potuto trascinarmi sempre più giù, fino ad incatenarmi al fondo dell'oceano.
______________Aspettai il mio turno nella sala d'attesa dell'ospedale, ritrovandomi di nuovo circondata dalle pareti bianche che mi avevano tenuto compagnia per troppo tempo.
Steven camminava lungo il corridoio, chiedendomi continuamente se avessi bisogno di qualcosa, fino a quando il Dottor McCray fece il suo ingresso e chiamò il mio nome. La sua segretaria mi accolse all'interno della grande stanza piena di attrezzature, accompagnandomi fino ad una lettiga scomoda e invitando Steven a prendere posto accanto a me.
«Non essere così nervoso» lo ammonii, esasperata. «E' solo un controllo».
Lui annuì, ma non sembrò affatto rassicurato dalle mie parole. L'ora successiva passò in un soffio, assecondando il mio desiderio disperato di uscire al più presto da quell'ospedale; raccontai brevemente del mio attacco di panico e dovetti affrontare la rabbia di Steven dopo avergli confessato della mia parentela con Dana. Non l'avevo mai visto così infuriato, tanto che stentai quasi a riconoscerlo.
«Stev» lo chiamai alla fine della visita, quando mi sorpassò uscendo dalla porta.
Lui mi ignorò, ma io decisi di non dargliela vinta e lo trattenni per un braccio. Mi inchiodò con uno sguardo che avrebbe potuto uccidere e io abbassai lo sguardo, non più sicura delle mie intenzioni.
«Mi dispiace» riuscii a dire.
«Lasciami in pace» replicò. La sua voce aveva palesato chiaramente il suo disprezzo nei miei riguardi.
Si allontanò lungo il corridoio, raggiungendo un'infermiera per prendere dei moduli. Rimasi da sola, trattenendomi dal correre e urlargli contro, e imboccai un corridoio casuale alla mia destra. Mi scontrai con una bambina che si limitò a sorridermi e a continuare a giocare nel corridoio insieme a quella che doveva essere sua madre, nonostante fosse molto giovane. Poi avanzai, fino a quando intravidi il lontananza una donna intenta a parlare con uno dei dottori dell'ospedale. Il suo tono era preoccupato e affannato. La conoscevo. Lo sentivo.
Sgattaiolai silenziosamente in uno dei corridoi che si diramavano da quello centrale, sperando di non essere vista, e appoggiai la schiena al muro, rendendomi più invisibile possibile agli occhi di quella donna. Quando mi sorpassò, tirai un sospiro di sollievo. Tastai il muro alle mie spalle, constatando che quello in cui ero appoggiata non era un muro ma una vetrata. Mi voltai, curiosa di sapere cosa si nascondesse dall'altra parte. I miei occhi vacillarono un istante e una fitta lacerante mi attraversò il cuore, come un pugnale, rompendolo in mille pezzi. La sagoma di un ragazzo, avvolta dalle coperte, si stagliava immobile di fronte ai miei occhi, illuminata dalla luce dei neon. C'era qualcosa nel suo viso, in parte nascosto dalla mascherina dell'ossigeno, che mi aveva tolto il fiato. Il mio cuore aumentò i battiti, mentre la mia mente sembrava aver perso il controllo, come se all'improvviso, dentro di me, di fosse accesa una scintilla.
Sfiorai il vetro con una mano, tracciando i contorni della sua figura, desiderando di poterla osservare da più vicino. Una consapevolezza nuova si fece spazio dentro di me, mentre il mio sguardo restava incatenato a lui, incapace di concentrarsi su altro. Era lui. Era Niall. Ne ero certa.
La voce di Steven, triste e spenta, mi costrinse a voltarmi.
«Dovevo immaginarlo» disse. «Vi perdete continuamente ma, non riesco a capire come, riuscite sempre a ritrovarvi».
**************
Il grande ritorno.
Eh si. Non ho idea di quanto tempo sia passato dall'ultimo aggiornamento della storia, ma non potete davvero capire quante cose sono successe negli ultimi tempi. Non sto nemmeno qui a raccontarvele tutte perchè potrei scriverci un altro libro, quindi mettiamo tutto da parte e andiamo direttamente al punto in cui mi perdonate per essere scomparsa da Wattpad.
Sto partecipando a diversi progetti ultimamente, sempre nell'ambito di libri e storie, e sto frequentando un corso di Scrittura Creativa che mi occupa veramente tantissimo tempo. Ma non ho alcuna intenzione di abbandonare nè Wattpad nè tantomeno Cause you make my heart race, perchè oltre ad essere la mia prima vera storia che, pertanto, deve essere portata a termine, è anche seguita da molte persone ed è una cosa che io trovo veramente bellissima. Mi impegnerò al massimo per questi ultimi capitoli e cercherò di scriverli sfruttando il poco tempo che la scuola e i vari corsi mi lasciano libero durante la giornata.
Un'enorme grazie a tutte le lettrici che sono riuscite a capire (almeno un pò) la mia situazione e che continueranno a supportarmi nonostante tutto.
Lasciate un commento, se volete, scrivendo come immaginate il finale della storia :)
Perdonate eventuali errori di battitura, prometto che li correggerò al più presto!
Vi voglio bene ♡
STAI LEGGENDO
Cause you make my heart race || Niall Horan
FanfictionTutto intorno a lei le ricordava la sua infanzia: la soffitta impolverata, un baule pieno di cose, una piccola collana di creta. Tutto sembrava riportarle in mente il suo migliore amico, con il quale non aveva più parlato per paura di risultare inva...