Capitolo 44

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La macchina che ci stava aspettando era una vecchia Nissan grigia a cinque posti. Bryan si sedette al mio fianco e per tutta la durata del tragitto, verso la meta che nemmeno conoscevo e che in quel momento nemmeno mi interessava sapere, mi tenne abbracciata contro di sé, provando, in qualche modo, a farmi sentire al sicuro. Il problema era che nessuno sarebbe riuscito a farmi sentire protetta, magari amata sì, ma protetta... mai.

- Parti - ordinò Bryan all'autista.

L'amara verità che mi aveva travolta e che facevo fatica ad accettare me l'aveva sbattuta in faccia in modo molto brutale persino per un Cacciatore, e credo che se ne fosse accorto anche lui. Si sarebbe scusato per le sue buone maniere mancate? Ovviamente no, non c'era nemmeno bisogno di chiederlo.

- Andrà tutto bene, te lo prometto - mi disse, cullandomi tra le sue braccia.

- E invece no, adesso peggiorerà tutto. Dovresti smetterla di dirmi bugie, che in cuor tuo sai che sono falsità. -

- Dev... ti resterò accanto e ti proteggerò - mi rassicurò, iniziando ad accarezzarmi la nuca. - Ora prova a dormire, il viaggio sarà molto lungo. - E così feci, senza farmelo ripetere due volte. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dal profumo dolceamaro che emanava la sua pelle, provando a non pensare.

Quando mi svegliai avevo la testa appesantita, come se avessi dormito un intero pomeriggio; ma non era così. Con mio grande sollievo potei affermare che, in realtà, avevo dormito una mezz'ora scarsa. E mi andava benissimo così, per carità. Con il lavoro che facevo ero stata costretta ad abituarmi a dormire anche un'ora e mezza a notte, grandioso vero?

Quando volsi la mia attenzione verso Bryan, che mi stava dormendo di fianco, non riuscii proprio a trattenere la mia malata voglia di accarezzargli il viso. È pazzesco, lo riconosco, però in quel momento era l'unica cosa che mi andasse di fare. Non potevo fare altro, anche se ormai mi ero calmata e rassegnata, per quanto mi fosse possibile, le immagini del mio Maestro sventrato da Corsius continuavano a tornarmi alla mente. Era così raccapricciante che avevo voglia di scoppiare in lacrime e di mettermi a piangere, anche se sarebbe stato tutto inutile. Piangere non lo avrebbe riportato in vita.

Una settimana dopo la scomparsa dei miei genitori, mia zia Esmeralda decise che era giunto il momento per me di andare in una scuola specializzata per Cacciatori. Era più un collegio dove i genitori che non erano in grado di crescere i propri figli appioppavano i ragazzini per farli diventare ottimi guerrieri ammazza-mostri. Ed era il posto in cui i miei genitori non mi volevano mandare, ma dove mia zia, non appena loro non furono più in grado di decidere, mi spedì senza pensarci un secondo di più. In quel posto mi maltrattarono, proprio come ci si aspetta da una scuola che prepara giovani militari. Quando vi arrivai ero ancora sconvolta e, soprattutto, in lutto per i miei genitori. A stento riuscivo a mangiare, figuriamoci a parlare a dei perfetti sconosciuti. Mi accompagnò lì mio zio, il quale aveva iscritto anche Mitch per farmi compagnia. All'epoca era un ragazzino parecchio frignone che piangeva per qualsiasi cosa, come una femminuccia a cui rubavano il pacchetto di caramelle. A differenza mia, che mi ero sempre presentata in maniera positiva, lui ti istigava l'omicidio (e certe volte si riaccende, specie quando fa le cazzate e sono gli altri a dovergli parale quel culo moscio che si ritrova.

- Io sono il preside dell'istituto, Bartholomew Price. Come ti chiami, ragazzina? - mi aveva domandato un uomo di circa cinquant'anni, con voce tonante e severa. Lo squadrai da piedi a capo (perché gli stavo fissando le scarpe) ma non gli risposi. Al che, mio cugino pensò benissimo di parlare per me.

- Si chiama Devee. Devee Hamilton ed io sono Mitchell Forrest. ­

­ E perché sei tu a dirmi il suo nome? Per caso ha perso la lingua? -

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