Capitolo 4: Il Concilio Ristretto - IV

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Yalel si fermò davanti al cubicolo di Lauviah, poggiando l'orecchio alla porta. Dall'altra parte sentì singhiozzare e gli si strinse il cuore. Bussò e restò in attesa.

- Vattene via! - gemette Lauviah, aprendo la porta di scatto - Non voglio parlare con te!

Si interruppe nel vedere Yalel e cercò di darsi un contegno, pulendosi il volto rigato di lacrime azzurrognole su una manica del vestito.

- Yalel... - sussurrò, esitante.

- Cos'è successo? - gli chiese l'altro, addolorato.

Lauviah cercò di parlare e l'unico risultato che ottenne fu scoppiare di nuovo in lacrime.

- Odio che tu debba vedermi così. - balbettò, fra un singhiozzo e l'altro. - Ti prego, lasciami solo.

- Va bene. Me ne vado. - mormorò Yalel, assentendo con un gesto del capo. - Se vorrai parlare, mi troverai in camera.

Lauviah annuì e, dopo aver mormorato un flebile "grazie", richiuse la porta. Si gettò nel letto e affondò il volto nel cuscino, cercando di sfogare tutta l'amarezza e la paura che ancora gli avvelenavano il cuore. Davvero il suo Creatore aveva cercato di distruggerlo? Si soffiò il naso e si raggomitolò nelle coperte. Pianse finché non ebbe più lacrime da versare e, esausto, si abbandonò ad un sonno profondo che, al risveglio, lo lasciò più stordito di prima.

Tutte quelle emozioni violente gli avevano scavato dentro ed ora era rimasta solo una desolante sensazione di vuoto. Se Raven non può nominare un altro erede a meno che io non muoia, avrei dovuto lasciare che mi prendesse, pensò con rassegnazione, massaggiandosi il viso.

Guardò fuori dalla minuscola finestra - era notte - e pensò a Yalel. Suo fratello gli aveva offerto il proprio conforto, ma era stato troppo da sopportare. Yalel, che aveva vissuto nelle grazie di Raven sin da quando era nato, non avrebbe potuto capire come si sentisse in quel momento. Quanto gli sarebbe piaciuto poter essere come lui. Non era giusto che solo Yalel avesse ricevuto l'affetto di Raven.

Lauviah avvertì gli occhi gonfiarsi di nuovo per il dolore e ricacciò indietro le lacrime con rabbia. Che genere di pensieri erano quelli? Avrebbe dovuto vergognarsi. Non gli era mai capitato di provare gelosia o invidia nei confronti di Yalel, ma perché gli venivano in mente quelle cose? Lo facevano sentire meschino, aggiungendo dolore al dolore.

Se Raven voleva Yalel come erede, non sarebbe stato Lauviah ad impedirglielo. Sarebbe andato lui stesso alla Sorgente. Dopotutto, non era difficile: bastava causarsi una ferita troppo grave affinché qualcuno potesse guarirla.

Tutti gli Immortali possedevano un'arma, che poteva avere qualsiasi forma o colore ed era una rappresentazione materiale della loro mente - la vera arma di ognuno di loro. Lauviah aveva fatto voto di non violenza molto tempo prima e non sapeva nemmeno se era ancora capace di utilizzare il proprio pugnale. Tuttavia, doveva provarci. Con un gesto della mano lo fece comparire e lo strinse, osservandolo da ogni lato. Una guardia crociata, una lama d'argento, nessun fronzolo. Semplice, proprio come lui. Quella era la sua essenza e la stava stringendo fra le dita, mentre pensava a come avrebbe potuto ferirsi. L'idea del sangue lo terrorizzava e non era bravo a sopportare il dolore a differenza di certi Immortali stoici, che non facevano una piega nemmeno quando venivano feriti alle ali, la parte più sensibile del loro corpo.

Avrebbe potuto tagliarsi le vene e andarsene con dolcezza oppure colpire uno degli organi vitali, ma non aveva il coraggio necessario per conficcarsi il coltello nell'addome.

Così, appoggiò la lama sulla pelle del proprio braccio, identificando una vena, e vi affondò la punta, con l'intento di aprirla. Tuttavia, non appena le prime gocce di sangue azzurrognolo cominciarono a colargli lungo il braccio, si spaventò e il coltello gli scivolò di mano. Lauviah emise un lungo gemito, cercando di tamponare la ferita per soffocare l'odore del sangue. Si rannicchiò sul letto e restò lì a singhiozzare sommessamente. Non era nemmeno in grado di togliersi di mezzo. Raven aveva ragione: lui era un incapace. Ma non poteva chiedere ad altri di eliminarlo: la pena per un Immortale che uccideva un suo simile consisteva nel taglio delle ali, la la più terribile che si potesse immaginare. L'ultimo ad aver commesso un atto tanto mostruoso era stato Kalfer, una delle creature di Annis, agendo in un raptus di rabbia. Le ali erano ciò che rendeva tale un Immortale e senza di esse non era nulla: una creatura storpia, priva di un'identità. Gli Immortali assassini venivano chiamati Caduti e trascorrevano una vita miserabile in dimensioni inferiori, chiusi nelle restrizioni di un corpo materiale, che spesso finiva per consumarsi prima che avessero la possibilità di dimostrare di essere degni di tornare a far parte della comunità. Quando ciò accadeva venivano semplicemente riassorbiti dalla Sorgente. Se invece riuscivano a dimostrare il loro valore, abbandonavano il corpo in cui erano riusciti a sopravvivere e venivano riammessi alla comunità. Le ali finivano per ricrescere da sole, come se l'aver pagato fosse sufficiente a guarirle. Alcuni sostenevano fosse una questione psicologica e che un Immortale non potesse essere davvero privato delle ali contro la sua volontà, ma solo le menti più forti riuscivano a mantenere questa consapevolezza anche nel momento in cui i coltelli affondavano nelle loro schiene, strappando loro ciò che avevano di più prezioso. La realtà era un concetto talmente labile e confuso che era facile lasciarsi suggestionare da se stessi.

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