Capitolo 49: Prigionia - I

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Gli parve di scorgere un lampo rosso nell'oscurità, ma era solo un'illusione. Ormai era talmente abituato agli scherzi che gli giocava la sua mente da ignorarli senza darsi la briga di controllare. Era consapevole che i suoi occhi erano ciechi, ma si ostinavano comunque a guardarsi attorno, come se avessero potuto rimediare a ciò che i demoni gli avevano fatto.

Non ricordava molto prima di uscire da quella sorta di melma nera che aveva attraversato. Sapeva solo di essersi risvegliato in una cella. Poteva essere la stessa in cui si trovava adesso, ma non ne era sicuro.

L'aria che si respirava lì gli bruciava la gola e faceva lacrimare gli occhi. Gli avevano messo una ciotola d'acqua poco lontano. Teddy, troppo assetato perché l'umiliazione lo frenasse, l'aveva bevuta come un cane.

Era stato quello il suo errore.

Poco dopo aver bevuto quell'acqua, aveva sentito un profondo languore farsi strada dentro di lui, finché non era caduto in un sonno profondo.

Quando si era svegliato, i suoi occhi erano diventati due inutili sfere senza fuoco.

Teddy cercò di trovare una posizione più confortevole, facendo tintinnare le pesanti catene che lo tenevano bloccato dov'era. Non sapeva di quale materiale fossero fatte, ma doveva avere qualcosa che lo indeboliva, dentro. Oppure era solo l'aria di quel posto, che, oltre a fargli male, rendeva instabile la sua mente, mostrandogli orribili allucinazioni.

La seconda cosa che gli avevano fatto dopo avergli tolto la vista era stata ammutolirlo. Si era svegliato con un cattivo sapore in bocca e aveva realizzato di non poter più parlare. L'unica cosa che poteva fare adesso era ascoltare i loro ghigni e piangere in silenzio.

Il suo solo conforto, nonostante dicesse spesso delle cose poco allegre, era l'Immortale rinchiuso in una cella vicino alla sua. A lui non avevano tolto la parola, e forse non era stata una buona idea, visto che era logorroico. Non faceva altro che parlare, parlare, parlare dalla mattina alla sera.

Teddy si trovava spesso a chiedersi se non continuasse a parlare del suo passato perché il presente era troppo orribile, ma nemmeno i tempi perduti erano tutti rose e fiori.

– Prima che a Gherbert venissero delle idee balzane in mente, andava tutto bene. - disse il suo compagno di sventura. - C'erano sempre delle dispute interne, ma persisteva un certo equilibrio. Eravamo tutti d'accordo sul fatto che i veri nemici fossero i demoni. Non ci saremmo mai sognati di prendercela con i nostri simili. Che senso ha questa lotta fratricida? Ci porterà all'autodistruzione. Sta già accadendo, e non c'è modo di tornare indietro, se vuoi chiederlo a me. Che ti posso dire? Forse abbiamo fatto il nostro tempo. Il nostro compito è portare l'ordina, ma quale ordine potremmo portare, se siamo impegnati a tagliarci la gola a vicenda? Non siamo migliori dei demoni, fratello.

Ripeteva spesso cose simili, inframezzando le sue sentenze con delle risatine isteriche o dei singhiozzi amari.

Teddy avrebbe voluto dirgli qualcosa per consolarlo, ma, anche se avesse potuto parlare, non era certo che il suo amico avrebbe potuto capire. Di tanto in tanto si chiedeva se non fosse impazzito. Non doveva essere uno che reggeva bene la solitudine, e chissà da quanto tempo era rinchiuso là sotto.

Ogni tanto, tuttavia, diceva delle cose sensate. Allora Teddy cercava di incoraggiarlo a parlare facendo tintinnare le catene che portava ai polsi o picchiando le mani sulla roccia. Il suo coinquilino a volte continuava i suoi racconti e sembrava quasi che lo capisse, ma la maggior parte delle volte lasciava cadere i discorsi più interessanti in favore dei suoi deliri.

Il tempo scorreva in modo diverso nella dimensione demoniaca. Teddy non sapeva da quanto fosse lì, ma gli pareva di esserci stato per più di un mese. Il ticchettio del suo orologio interno era talmente lento che a volte gli faceva più paura restare rinchiuso in quella cella senza nulla con cui distrarsi rispetto a quando lo conducevano alla sala di tortura. Non potendo vederla, la definiva "sala", ma avrebbe potuto anche essere un cubicolo. L'unica cosa di cui era sicuro in quei momenti erano le cinghie che gli stringevano attorno al corpo per impedirgli di fare movimenti bruschi o aggredire il suo carceriere. Spesso si trattava di demoni che avevano bisogno di una valvola di sfogo e decidevano di divertirsi con lui, ma ogni tanto veniva a fargli visita anche Valerie, o meglio, Lilith. Quello era il suo vero nome. Teddy aveva sentito diversi demoni chiamarla in quel modo. Nonostante ciò, lui non riusciva ad attribuirle un nome diverso che non fosse quello con cui l'aveva conosciuta. Gli sembravano passati dei secoli da quando l'aveva vista per la prima volta al fast food. Ogni tanto si chiedeva se la vita che avesse prima non fosse stata un'illusione. Esistevano davvero cose tanto banali come i fast food, o erano solo il frutto della sua mente sconvolta dal dolore? I suoi ricordi si intrecciavano in intricati nodi senza risoluzione. L'aria della dimensione demoniaca, oltre a fargli vedere delle cose che non esistevano, gli obnubilava la mente. Più tempo passava in quel luogo, più gli pareva di diventare stupido. Presto sarebbe stato intontito a tal punto che, se lo avessero liberato e gli avessero detto di scappare, lui sarebbe rimasto seduto nella sua cella, perché non avrebbe capito quello che gli stavano dicendo.

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