Capitolo 46: Ulisse - II

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Chiuse gli occhi e restò in attesa. Allargò le braccia e le gambe per bilanciare la caduta e solo allora si rese conto che non c'era alcun vento. Stava cadendo, eppure non sentiva l'aria fischiargli nelle orecchie o agitargli i vestiti.

La sensazione di caduta cominciò a diventare sempre più lieve e la luce blu sempre più intensa, al punto che diventò inutile tenere gli occhi chiusi o coprirli con le mani, perché riusciva ad attraversare la sua carne.

Dopo un tempo indefinito, qualcosa disse a Fabian che ormai non stava più precipitando. Era fermo, disteso su una superficie tiepida e immateriale come una nuvola, che, contro ogni logica, riusciva comunque a reggere il suo peso.

Riuscì a trovare il coraggio di aprire gli occhi. In un primo momento, emise un gemito, richiudendoli di scatto. Quella luce era troppo forte. Era come cercare di guardare una supernova a occhio nudo. Sarebbe diventato cieco, se avesse tentato di sollevare di nuovo le palpebre!

Tuttavia, decise di fare un secondo tentativo. All'inizio fu come se ci stessero versando sopra del sale, poi il bruciore si fece meno intenso, diventando prima sopportabile e infine un lieve fastidio. Più il dolore diminuiva, più Fabian riusciva a vedere. La luce blu era come una nebbia, che finora gli aveva impedito di scorgere ciò che lo circondava: si trovava in quella che, dopo un esame accurato, la sua mente classificò come una distesa d'erba azzurra. In effetti, tutto lì era azzurro. Fabian non avrebbe mai immaginato che potessero esistere tante gradazioni di un singolo colore. L'erba, gli alberi... malgrado il colore, assomigliava tutto al mondo dove aveva sempre vissuto e ciò non potè fare a meno di rassicurarlo.

Fabian batté le palpebre, cercando di ricordare il motivo per cui era lì. Era tutto molto confuso nella sua mente. Era come se la luce blu gli rendesse difficoltoso pensare e annebbiasse i suoi ricordi.

In un primo momento, dovette compiere uno sforzo intenso persino per rammentare il suo nome. Poi anche gli tornò alla mente, e si ricordò di Aides.

– Aides, stai bene? - cercò di dire, ma dalla sua gola non uscì alcun suono.

Si portò una mano al collo, preoccupato. Le sue corde vocali erano state danneggiate dall'aria di quel luogo? Ammesso che quella che stava respirando potesse essere definita "aria".

Dopo un lungo istante, la voce del demone crepitò nella sua mente.

Per un momento me la sono vista brutta, ma sono ancora intero.

– Perfetto.

Padrone, sei sicuro che sia stata una buona idea venire quaggiù?

– No, per niente, ma che altra alternativa avevo? Il problema ora è scoprire dove sono gli Immortali. Sembra che non ci sia nessuno, qui.

Concordo. Non sento la presenza di nessuno di loro. E' come se fossero scomparsi.

– Sarà meglio incamminarsi. Tu hai idea di dove potremmo cercare?

Sicuramente non qui. Se vuoi parlare con Raven, sarà meglio andare al Palazzo di Giustizia. Di solito i Cinque si trovano lì.

– Anche Annis, dunque. Non credo che apprezzerebbe la mia presenza.

Nemmeno la mia, se per questo. Ci farebbe rinchiudere in prigione, nella migliore delle ipotesi.

– Allora dovremo essere cauti. Guida i miei passi: tu sai come passare inosservato.

Sì, padrone. Però ti avverto... non so quanto tu possa resistere in questo luogo. Le nostre forze vitali sono legate e se tu morissi a me accadrebbe lo stesso, quindi cerchiamo di fare in fretta.

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