Capitolo 11: Caleidoscopio

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Romi

"Oggi ne ho bisogno Joe" mi lamento con tono penoso e supplichevole, mentre Joe esita nel servirmi il gin tonic che gli ho appena chiesto. "Il problema è proprio questo Romi: non puoi averne bisogno a soli diciotto anni!" mi rimprovera sommessamente. Stasera però non sono di certo venuta al pub per farmi fare una predica riguardo quello che ormai è chiaramente il mio vizio. Così non ho problemi nel buttar giù il mio drink sotto lo sguardo preoccupato di Joe. L'alcol potrà attutire il leggero mal di testa che mi tormenta in seguito alla caduta di oggi, oppure acuirà il dolore e così almeno mi distrarrà dai miei soliti pensieri terribili.

Mi passo una mano sul cerotto che mi copre la tempia: sapevo che rintracciare quel Kevin non avrebbe portato a nulla di buono, ma ovviamente, testarda come sono, non ho dato ascolto ai suggerimenti di Dylan e l'ho raggiunto al cantiere per restituirgli la felpa. La verità è che, inspiegabilmente, avvertivo un'assurda voglia di rivederlo. Se però ripenso all'ennesima stupida figura che ho fatto, sentendomi male di nuovo davanti a lui, vorrei scomparire per l'imbarazzo, ma al tempo stesso sento di non dovermene preoccupare più di tanto. Ogni volta che lo rivedo, Kevin mi porta ad essere sempre più confusa. È come se l'atteggiamento rude con cui si presenta sia una sorta di coperta che lo tiene al sicuro, nascosto dal mondo a cui così può evitare di mostrarsi per quello che è. Tuttavia a volte emerge qualcosa di più, come se la gentilezza e la delicatezza, che certe volte in lui sono innegabili, fossero qualcosa di prezioso che, di quando in quando, sfuggono dalla sua severa custodia.

Sto lentamente affogando in queste riflessioni, che hanno il sapore pungente del gin, quando Robby Ray, seduto sul suo solito sgabello alla fine del bancone, richiama la mia attenzione: "Ehi Romi, c'è qui anche il tuo amico questa sera." Appena conclude la frase, il rumore di stivali da motociclista, pigramente trascinati sulle travi di legno del pavimento del pub, mi costringe a voltarmi di scatto. Kevin è appena entrato nel locale e si siede accanto a me al bancone, con il solito sguardo strafottente.

"Ti capita spesso di bere molto?" mi chiede con indiscrezione, indicando il mio drink ormai terminato. Tengo il bicchiere tra le mani, abbasso lo sguardo e stringo i denti indispettita. "E' a causa del troppo alcol che stavi male la prima volta che ci siamo visti al fiume?" indaga, con quegli occhi verdi penetranti, mentre si porta alle labbra una birra. "Non ti riguarda" replico secca. "Dal momento che ti ho soccorsa e che senza di me te la saresti vista brutta, direi di sì" insiste fiero. Improvvisamente un'inspiegabile coraggio mi spinge a guardarlo duramente negli occhi: "Mettiamo le cose in chiaro: non eri tenuto ad aiutarmi e io non te l'ho chiesto. Quindi non ti devo nulla e non provare nemmeno a ipotizzare che io sia in debito con te!" Non ho la minima intenzione di farmi incastrare da un'altra persona che rivendica qualche diritto su di me. Ecco perché preferisco sbrigarmela sempre da sola, senza chiedere favori a nessuno, nel bene e nel male. Kevin assume un'espressione stupita di fronte al mio sfogo e si tira leggermente indietro, alzando le mani in segno di difesa. "Non me lo hai chiesto?! Ne sei sicura? Credimi, il tuo sguardo diceva il contrario" mi sorprende, insospettendomi sul fatto che quella volta al fiume, forse, era stato davvero in grado di leggermi nel pensiero. "Comunque, quello che dici vale anche per quanto è successo oggi?" azzarda, divertito più che offeso. "Be'..." balbetto, presa come al solito in contro piede. "Grazie. Di nuovo" pronuncio con un grande sforzo, di fronte alla sua espressione soddisfatta. "Ma non c'era bisogno di farla troppo seria, davvero. Non è niente" assicuro, massaggiandomi il polso che lui ha insistito per fasciarmi subito dopo la caduta al cantiere. Per fortuna nessuno ha chiamato i paramedici: mi sarei sentita ulteriormente a disagio e poi effettivamente non mi è successo davvero nulla di grave.  

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