Capitolo 77: I was here

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PROVA FINALE DI DIPLOMA

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PROVA FINALE DI DIPLOMA

ESAME DI LETTERATURA

di Romi Sullivan

SAGGIO: Vivere per morire: la paura è un privilegio umano.

C'è chi dice che la paura sia come una gabbia che ti tiene prigioniero, le cui sbarre si richiudono su di te, privandoti del respiro, della vista, dell'udito, del tatto e del contatto, della dignità che rende l'uomo tale. Fauci mostruose che ti inghiottiscono, alienandoti da questo mondo e dalla vita. Altri affermano che la paura sia utile, non tanto un freno quanto un importante promemoria, un'avvertenza che ci indica quando stiamo percorrendo una strada che ci porterà verso la nostra fine. Ancora, c'è chi sostiene che la paura sia semplicemente una scelta possibile di fronte ad un pericolo certo: si può lasciare che essa ci blocchi e che il pericolo abbia la meglio, oppure si può impedire che abbia presa su di noi e sconfiggere l'ostacolo che si presenta.

Non so se la paura sia utile o controproducente nella nostra esistenza, ma la conosco, l'ho provata e vissuta; è ciò che mi rende umana e per questo ne vado fiera. Dunque posso affermare di non rimpiangere la mia paura. Tuttavia posso anche svelare che tutte le paure hanno un'unica radice comune: la fine che viene avvertita come prossima. La fine di una bella esperienza, la fine di un'emozione, di un legame, di un amore, della vita. Temiamo tutti la fine, perché oltre di essa non c'è più nulla, né il bene né il male. Temiamo tutti il buio dell'anima, quello che mette a tacere tutte le nostre sensazione, persino le paure.

Preferisco avanzare nell'angoscia costante che mi circonda come una foresta di roghi, prestando attenzione a non pungermi ad ogni passo; essa almeno mi fa apprezzare le oasi di piacere e serenità che di tanto in tanto incontro. Quei momenti, istanti, in cui tutto sembra trovare il proprio posto nell'universo e così anche io il mio. Preferisco che l'angoscia funga da promemoria per godere della pace concessa agli umani, piuttosto che perpetuare un'intera esistenza nella più assoluta apatia e atarassia, nel distacco totale. Rifiuto questa soluzione ascetica e stoica.

Tuttavia rifiuto anche l'innalzamento all'Olimpo divino, la possibilità di essere ammessa tra le divinità, le cui invidie e capricci denunciano un'esistenza annoiata e priva di significato. La più grande occupazione presso l'Olimpo è quella di osservare gli uomini, commentare e giudicare le loro azioni, invidiare i loro piaceri. Gli dei, infatti, al contrario degli umani, non conoscono la sazietà e questo di conseguenza li porta anche ad ignorare il gusto di ogni frutto della vita, che loro hanno il privilegio (o la maledizione) di chiamare eternità.

L'eternità non è per le persone, e forse, fortunatamente, neppure per il dolore o il piacere, ma per i sentimenti. Non voglio condurre un'esistenza da spettatrice di una realtà inferiore che osservo dall'esterno, voglio far parte di quel caos confuso in cui gli uomini sono immersi e in cui sono chiamati a scegliere tra bene e male, giusto e sbagliato. Non voglio invidiare né compatirmi, non chiedo di comprendere il mondo intero, avendolo tra le mani, né di ignorarlo totalmente, risultandone esclusa.

Voglio conservare almeno un briciolo di paura, promemoria di una condanna a morte, della fine certa di ogni essere mortale; perché tutto è più bello per un condannato a morte. Gli eroi epici erano ossessionati dell'eternità e dalla gloria, volevano scolpire i loro nomi nella roccia, affinché i posteri li ricordassero. Gli eroi epici vivono nei poemi. Io voglio vivere nel nostro mondo e scrivere il mio nome nella sabbia del tempo, quella che verrà spazzata via, cosicché nessuno lo ricorderà.

Ma le mie azioni, quelle resteranno: voglio poter dire di aver vissuto, di aver compiuto la mia parte nella lotta antica che l'umanità porta avanti fin dalle origini, la lotta contro il tempo, contro la fine. Essa trova vittoria in ogni uomo che è in grado di cambiare la vita di un altro uomo, uno solo, ma che alla fine potrà dire: io c'ero, io l'ho fatto.

Anche le divinità e gli eroi devono arrendersi nell'ammettere che combattere per amore, quello compassionevole e umano, ha più senso che combattere per qualsiasi altro motivo sbiadito dal tempo. Non voglio amare eroi, ma uomini. Non voglio sperimentare una beatitudine apatica, ma la pace precaria data dall'amore in una vita di guerra.

Non i nomi, ma le azioni devono restare in un mondo attraversato da conflitti, in cui i giovani muoiono e i vecchi parlano. Ebbene saremo noi, piccoli e ignoti, a porre le basi per un futuro più grande, che verrà alimentato e costruito nel tempo, generazione dopo generazione. Saremo quei giganti invisibili, le fondamenta di un mondo migliore, e chi verrà dopo di noi potrà testimoniare di aver camminato sulle spalle dei giganti, in una realtà in cui l'uomo sorge e cade, ma la sua eredità rimane.

Io sono qui, adesso. Ho vissuto ogni giorno fino alla fine, con dignità; ho lasciato un segno che gli altri non dimenticheranno. Non ho rimpianti. I cambiamenti che sono stato in grado di generare saranno la prova che io c'ero, la differenza che ho fatto e che il mondo, con il tempo e il contributo di altri, riconoscerà. Ho fatto tutto quello che dovevo, il mio meglio, anzi di più, perché io ho dato tutto.

Sì, di me si dica che ho vissuto al tempo dei giganti, non gli dei o gli eroi, ma quei piccoli grandi uomini che mi hanno fatto scoprire l'amore e con esso la paura di perderlo, di coloro che mi hanno fatto scoprire che vale la pena vivere per morire, ma che sono stati anche in grado di farmi dimenticare la fine vicina, rendendo eterni attimi di una passione divina.


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