Capitolo 50

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Il 21 marzo Tom e Rick fecero ritorno da Detroit.
Dopo lunghe congetture e riflessioni, avevo deciso di tenere quel laido segreto per me, giudicando che niente di buono sarebbe sorto dal condividerlo con mio fratello. In effetti ero sicura che solo il senso di colpa lo avrebbe distrutto, perché la prima persona contro cui si sarebbe scagliato era se stesso per essersene andato.

Ahimè, il destino volle che Tom notasse immediatamente il piccolo foro nel soffitto che era stato causato dallo sparo che ebbi liberato con la pistola di Petrovskij. E di cui mi ero completamente dimenticata. Prima che potessi inventarmi una buona scusa per acquietare Tom, gli bastò una breve telefonata per scoprire  tutto quello che avrei voluto nascondergli.
Reagì prima con una collera e uno scempio di cui non pensavo fosse capace: urlava insulti grevi, lanciava in aria le cose e distruggeva tutto ciò che gli capitava davanti. Era talmente accecato dall'ira che eventualmente prese a pugni il nostro coinquilino quando questo provò a fermarlo. Frastornata e troppo gracile per calmarlo, dovetti chiamare Cole, che venne di corsa in nostro soccorso.
Cole lo portò con sé chi sa dove, mentre io rimasi in casa a disinfettare le ferite di Rick e scusarmi fra parole e pianto.  Rick non diede peso alla cosa, invece sentenziò, "non fa niente Layla. Davvero, lo capisco...non era in sé...". La mattina seguente Tom tornò in casa tutto annichilito e desolato. Si scusò prima con l'amico, poi con me e, nonostante l'avessimo rassicurato che avevamo perdonato il suo raptus, rimase taciuto e imbronciato per tutto il resto della settimana.  Successivamente, con il passare dei giorni, tornò a sorridere di nuovo e a trattarmi come se nulla fosse mai successo, probabilmente perché aveva appreso che era ciò di cui avevo bisogno per tornare a sorridere a mia volta.
Ma aldilà dei sorrisi forzati e gli atteggiamenti mansueti, c'era ancora il segno dell'incrinatura causata dalla lacerazione della nostra famiglia. Ma era solo quello: una cicatrice appena visibile che, con il tempo, logorava e assumeva man mano le vesti della normalità. 

Comunque, nonostante non fossi più sola in casa, le visite di Cole non diradarono. La mattina mi veniva a trovare all'Elisir e se ne stava semplicemente seduto di fronte a me , spesso senza spiccicare una parola, mentre io lavoravo. E quando il mio turno terminava mi passava a prendere per riaccompagnarmi a casa o per darmi un passaggio in macchina quando ce l'aveva. Non sapevo se per lui quella routine fosse un'incombenza o un passatempo che seguitava con piacere, ma in un modo o nell'altro mi dava conforto e, per questo, non mi azzardai mai ad interrogarlo sulla questione.
Sentivo che il nostro rapporto diventava via via più profondo e, senza accorgermene, arrivai al punto da bramare la sua presenza quando era assente. Pensavo a lui sempre più costantemente, non solo quando ero sola ma anche e soprattutto quando la gente faceva ressa attorno a me. Sviluppai l'abitudine di paragonare la compagnia degli altri a quella di Cole e più tempo trascorrevo con lui più imparavo a pregiare l'arte del silenzio e della conversazione parsimoniosa e a disprezzare invece i discorsi vacui. 
Allora non comprendevo e non braccavo la natura dei miei sentimenti verso Cole : la nostra sembrava essere un'ingenua amicizia, fondata sì su un evento che aveva sbrecciato entrambi, ma era comunque qualcosa di terso e innocuo. O, almeno così avevo esortato me stessa a credere, indugiando l'imminente esame di coscienza che eventualmente mi avrebbe costretta ad affrontare i miei sentimenti e accettare che mi stavo effettivamente innamorando del mio migliore amico.  

26 marzo

Piccoli granelli di polvere viaggiavano in aria sotto la luce calda del bar mentre spazzavo con un ritmo monotono il pavimento del locale. 
Sospirai fra me e me, esausta da un altro estenuante turno di un altro interminabile sabato sera.
Sollevai lo sguardo sulla parete su cui era appeso il vecchio orologio, che ora indicava mezzanotte passata, poi diedi un'altra occhiata attorno a me, provando ripugnanza solo a guardare il sordido casino che dovevo ancora pulire.
Bottiglie di birra giacevano usate e abbandonate sui tavoli, alcune vuote altre ancora piene. Alcune erano in compagnia di porzioni consumate di patatine fritte, hamburger mordicchiati, qualche pezzetto di bacon oppure residui di panini di altro genere. 
Alla radio Nina Simon narrava melodiosamente dei pesci in acqua, di fiumi che fluiscono armoniosi, di fiori che sbocciano negli alberi, di nuove albe, nuovi giorni, nuove vite e, infine, della sua gioia.
Il suo benessere mi fece sentire ancora più depressa mentre iniziavo a raccogliere le bottiglie di vetro,  fermandomi solo per scrocchiare la schiena e arricciare il naso quando sfioravo le sporcizie lasciate sui tavoli.
Sobbalzai quando sentii la porta del bar aprirsi alle mie spalle e, ancora prima di vedere chi era, annunciai senza entusiasmo, "siamo chiusi."
Pochi secondi dopo, la porta venne chiusa. Mi rilassai e ripresi a raccogliere le bottiglie. Rimasi tuttavia raggelata sul posto non appena udii qualcuno vociare alle mie spalle, "anche per me è chiuso?"
Brividi corsero lungo le mie braccia dal torpore e il battito del mio cuore adottò un ritmo veloce e sincopato. 
Inebetita, mi voltai indietro e entrai in apnea appena vidi il suo volto.
Gentili occhi blu mi fissavano con un entusiasmo esorbitante, studiando la mia espressione in attesa di una risposta alla sua inaspettata comparsa.
"Dom..." biascicai dopo un infinito intervallo di silenzio, ancora istupidita.
"Hei..." replicò lui e il suo entusiasmo franò visibilmente  per essere sostituito da un'espressione illeggibile. 
Mi ricordai che stavo ancora tenendo le bottiglie in mano e usai quel pretesto per interrompere il contatto visivo. Le appoggiai sul bancone con mani instabili e presi un profondo respiro per acquietarmi.
"Quando sei tornato?" Domandai voltandomi nuovamente nella sua direzione.
"Stanotte..."
"Pensavo volessi rimanere fino ad aprile..."
"Oh no no Layla...io non volevo proprio andare...non potevo stare là per un altro secondo senza vederti dopo che ho saputo..." Spalancai la bocca con trepidazione, inorridita dall'ultima parte della sua frase.
Lo sapeva...

"È stato Cole a dirtelo...come...come ha potuto!" Esclamai, ferita dal tradimento di Cole, che mi aveva promesso precedentemente che non avrebbe detto nulla al fratello.
"No, lui non mi ha detto niente," tagliò corto Dom e un sospiro di sollievo sfuggì involontariamente dalla mia bocca. Per qualche strano motivo l'idea di essere tradita da Cole mi turbava più del fatto che Dom fosse al corrente di ciò che era successo.
"Dom...mi dispiace...io...io non so come scusarmi abbastanza per...per..." umiliata e desolata, non riuscii nemmeno a finire di articolare la frase. Un groppo brulicante serrava la mia gola,  strozzava le parole che volevo pronunciare, soffocandole al punto da rendere la mia voce un pietoso suono discontinuo, come il verso di un cane bastonato.
"Oh no no no...non scusarti per niente Layla, mai," intervenne Dom e in un batter d'occhio le sue braccia mi stavano circondando, tenendomi saldamente entro il suo corpo tarchiato. 
M'irrigidii per un istante, intimidita dalla sua figura massiccia, con cui il mio corpo aveva ormai perso confidenza.
"Non avrei dovuto andare...non avrei dovuto lasciarti dietro Layla..." mormorò fra i miei capelli mentre le sue braccia mi cullavano contro il suo petto. Mi rilassai inalando il suo profumo e chiusi gli occhi riposando la testa sulla sua spalla.
"Tom, Rick, Cole...tu, avete detto tutti la stessa cosa..." sussurrai sollevando la testa per guardarlo negli occhi. "Ma almeno tu Dom, non trattarmi come se fossi diversa adesso. Sono sempre io," sospirai. "Certo, un po' danneggiata, ma sono sempre-" Dominic mi zittì fiondando la sua bocca sulla mia, baciandomi come sapevo avrebbe fatto se non fosse stato al corrente di tutto.
Ricambia il bacio, ripetendomi continuamente che quello davanti a me era Dominic, un uomo che non mi avrebbe mai fatto del male. Forse per questo il bacio fu sobrio e troppo controllato, quasi automatico da parte mia.
Lui doveva essersene reso conto, perché presto si tirò indietro, separando così le nostre labbra, e studiò in silenzio la mia espressione.
Capii che era giunto il momento di dirgli ciò che non avevo avuto il coraggio di scrivere per messaggio o di pronunciare attraverso il telefono.
"Dom..."  farfugliai setacciando un modo per confessare le mie intenzioni senza ferirlo. 
"No. Ti prego, no..." mi interruppe passandosi le dita fra i capelli, che ormai erano così lunghi da formare due ciuffi spessi che incorniciavano la sua fronte.
Allungai istintivamente il braccio in avanti e feci scorrere a mia volta le dita fra i suoi capelli.  Sorrisi al contatto con tale morbidezza, rammentandomi nel frattempo dei momenti sereni che avevamo condiviso insieme prima della sua partenza.
Ci fissammo per un po', comunicando con gli occhi tutto ciò che le nostre bocche non potevano sintetizzare in parole.
Ma comunque, sebbene Dom avesse già inteso ciò che avevo in mente, non potevo non fornirgli una spiegazione. Era il minino che potevo fare.
"Dom...io...quello che mi hai dato negli ultimi mesi è il meglio in cui ogni ragazza come me può sperare e te ne sarò sempre grata...mi hai fatto ridere; hai sopportato ogni mio capriccio, dandomi ragione anche quando avevo chiaramente torto; hai voluto bene a Jamie come fosse tuo figlio; ti sei preso cura di me e mi hai mostrato il vero significato dell'amore..." mi presi un secondo per prendere un profondo respiro e asciugare le lacrime che non sapevo nemmeno di aver versato.
"Sei una delle presone più buone che abbia mai conosciuto, e l'ultima cosa che voglio al mondo è ferirti, o rovinare l'amicizia che abbiamo a causa di quello che è successo...
"So che sembra contraddittorio dirti prima che sono sempre la stessa e poi allontanarti per quello che è successo, ma-"

"No, no capisco. Hai bisogno del tuo tempo per superarla...è solo che...beh...non è così che avrebbe dovuto andare...." 

"Mi dispiace così tanto Dom..."  ammisi mordendomi il labbro per non scoppiare in singhiozzi, in parte sollevata dal fatto che mi avesse capito, in parte perché la mia vita si stava sbrecciando davanti ai miei occhi e non c'era niente che potessi fare per porre fine a tale distruzione. Questa volta feci io la prima mossa, sostenendomi sulle punta dei piedi per cingere il suo collo e avvinghiarmi a lui. Ricambiò l'abbraccio senza esitare, affondando il viso nei miei capelli e strofinando dolcemente la mia schiena. Infine disse, "mi mancherai Layla Bell."

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