Capitolo 45

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Qualcuno bussò alla porta della mia stanza. Ma non avevo abbastanza forze per rispondere.
Rimasi dunque rannicchiata sul letto, affacciata alla finestra e con le spalle alla porta. La stessa posizione in cui avevo trascorso i quattro giorni precedenti.
"Hei..." Parlò Tom prima di sedersi sul bordo del letto, facendo pressione sul materasso.
"Ti ho portato la cena..." Aggiunse e poco dopo sentii il rumore di un bicchiere sfiorare probabilmente un piatto.
Non avevo fame. Qualunque cosa mettessi in bocca era ormai senza sapore, ma che importanza aveva se il cibo mi piaceva o meno?
Il mio corpo ospitava un altro essere umano che aveva bisogno di me per sopravvivere. Per cui avrei mangiato tutto ciò che riuscivo a mandare giù senza vomitare.
Tom accarezzò teneramente la mia gamba e cominciò a parlare, "Jamie vuole sapere perché la sua mamma non gli parla..."
I miei occhi si annebbiarono e una lacrima silenziosa scese lungo la mia guancia.
"Perché non stai prendendo le tue medicine Layla? Non vedi quanto sei miserabile senza?" Il suo tono era accusatorio e la sua mano smise di strofinare la mia gamba.
"Raccontami cos'è successo...ti prego, non posso aiutarti se non mi dici nulla..."
"Niente pillole..."   Farfugliai incantata nel tramonto al di là della finestra.
Tom si alzò e venne ad inginocchiarsi di fronte a me.
"Layla...non so più cosa fare....ho bisogno che tu mi dica qualcosa, qualsiasi cosa per farmi capire cosa ti ja fatto questo..."
Sospirai malinconicamente e un'altra lacrima colò sul cuscino.
"Sono stanca..." Mormorai con una voce talmente debole che nessuno avrebbe dubitato della veridicità della mia affermazione. Perché in effetti ero stanca. Distrutta persino.
"Hei...raccontami tutto, come facevi un tempo. Ricordi?" Tom spostò una ciocca di capelli dietro alle mie orecchie guardandomi addolorato, come se stesse soffrendo la mia stessa agonia.
Presi in considerazione l'idea di confessargli tutto, poiché tenermi dentro le cose non era molto d'aiuto.
Ma come avrei potuto dirgli che ero incinta e con il cuore infranto dal fratello del mio ex-ragazzo senza che lui mi giudicasse? C'erano forse parole sufficienti per raccontargli di come Cole mi aveva fatta innamorare di lui? Di come mi aveva salvata non solo da quel mostro, ma anche da me stessa?
C'era un modo di spiegare non solo a lui, ma a tutte le persone che mi stavano attorno che l'uomo che mi aveva ridato vita era lo stesso ad avermi distrutta?
Tutto ciò mi appariva inspiegabile e troppo complesso per essere sintetizzato in parole povere.
Per cui mi trovai a rispondere, "starò meglio..."
Tom annuì e rimase al mio fianco in silenzio per qualche minuto prima di alzarsi e uscire dalla stanza.
Mi sollevai dal letto con fatica e mi misi a sedere contro l'appoggia schiena. Avvicinai il vassoio pieno di cibo e iniziai a masticare la cena senza sapore.
Nel frattempo tornai a pensare al punto di partenza della mia miseria. A come avevo fatto ad innamorarmi di Cole senza rendermi conto di quanto pericoloso e spietato potesse essere.

12 marzo, ore 02:45
La porta venne aperta e la parte ancora traumatizzata in me temette fosse il mio aggressore. Strinsi con più forza le ginocchia al petto e mi avvicinai a Jamie che giaceva accanto a me.
Un sospiro di sollievo uscì dalle dalle mie labbra quando Cole entrò. Il suo sguardo cadde su mio figlio e un filo di tenerezza balenò sui suoi occhi. Unì le mani e le sfregò nervosamente una contro l'altra, poi fece qualche passo nella mia direzione.
"Ho chiamato un amico che può badare a Jamie mentre siamo in ospedale..." disse indicando la porta alle proprie spalle.
Fremetti sbarrando gli occhi. "Non voglio andare in ospedale," affermai e tutte le parti doloranti del mio corpo obiettarono.
Cole si schiarì la voce, poi venne a sedersi accanto a me. "So che sei stanca e spaventata...ma dobbiamo andare in ospedale...dovremmo già essere là in realtà...."
Le lacrime minacciarono di nuovo di salirmi agli occhi e la mia vista si annebbiò mentre scuotevo la testa. "Non voglio uscire...ti prego..." farfugliai supplicandolo con lo sguardo. Davanti alla mia disperata richiesta la sua sua espressione si rilassò in arresa.
"Okay....allora chiamerò un dottore qui. D'accordo?"
Aprii bocca per obiettare ancora, ma qualcosa nel suo sguardo mi fece capire che non avevo altra scelta. Dovetti così annuire, poi chiesi con orrore,
"è...è ancora in cucina?" 
"No. Winston se ne occuperà. Non ti dovrai più preoccupare di lui, è morto," affermò chiaramente disgustato dal soggetto.
Poteva anche essere morto, ma le sue mani avide le sentivo ancora su di me, violente e spietate.
L'ansia mi prese di nuovo e presto il mio petto prese ad alzarsi ed abbassarsi in cerca di ossigeno. La stanza divenne improvvisamente priva di aria e cominciai a tremare soffocando nel mio stesso respiro.
Cole afferrò le mie spalle e mi costrinse a rimanere mobile affinché lo guardassi negli occhi.
"È morto," ripeté fissandomi intensamente. "Non può più farti male," mi rassicurò.
Scossi la testa e cominciai a piangere. "Lo sento ancora...lo sento ancora..." Blaterai delirante, iniziando ad agitarmi. "Fallo smettere, ti prego...fallo smettere..." Farfugliai premendo con forza le gambe una contro l'altra nonostante la sensazione di bruciore per stringerle al petto.
Ero bloccata in un incubo ad occhi aperti, subendo la stessa tortura ancora e ancora.
"Layla, stai delirando. È finita, sei qui adesso," sentii la voce di Cole provenire da un'altra dimensione. Lottai per sfuggire all'incubo e raggiungere il presente ripetendo più volte nella mia testa, "è finita. È morto."
"Sì. È morto. Torna qui," confermò  Cole. "Respira. Respira con me," ordinò simulando respiri lenti e profondi. Scossi la testa e mi concentrai su di lui, imitando il movimento del suo petto.
Respirai profondamente e via via riuscii a calmarmi e a tornare in me.
"Brava, così..." M'incoraggiò lui.
"Okay...okay sto bene," mi sentii in dovere di rassicurarlo, scorgendo la preoccupazione nel suo viso.
"Devo chiamare il dottore. Torno subito." Cole fece per alzarsi ma mi precipitai in avanti e afferrai il suo braccio prima che potesse allontanarsi.
"Resta. Non voglio stare da sola," lo implorai guardandomi attorno in paranoia. Il battito del mio cuore iniziò ad accelerare di nuovo e il sudore freddo bagnò la mia fronte.
Il viso di Cole si addolcì, mostrandomi la sua comprensione.
"Vieni, andiamo nell'altra stanza. Non voglio svegliare il piccolo," disse Cole alzandosi di nuovo in piedi prima di chinarsi su di me e sollevare il mio corpo debole fra le braccia.
Circondai il suo collo con un braccio e rilassai la testa contro la sua spalla sollevata dal fatto che non mi avrebbe  lasciata sola con la paura.

Mi portò nella stanza di Tom e mi fece sdraiare sul letto. Assunsi la posizione di prima, con le ginocchia al petto contro l'appoggiaschiena, perché chiudermi in me stessa era l'unica posizione che mi dava un senso di conforto.
Cole prese fuori il cellulare e compose il numero del dottore, poi cliccò sul cerchio verde e si portò il cellulare alle orecchie.

La conversazione fu breve. Cole non dovette nemmeno insistere per convincere il medico a soccorrermi alle tre di notte.
E non dovemmo neppure aspettare tanto. Dieci minuti più tardi un uomo alto, dai capelli brizzolati entrò in giacca e cravatta e una ventiquattrore nera in mano, accompagnato da un uomo più giovane della stessa statura, pelle scura, sguardo gentile e postura formale.
"Layla, questo è il dottor Jackville," indicò l'uomo più vecchio. "E questo è Winston, un vecchio amico," indicò l'altro, che mi salutò con la mano rivolgendomi un sorriso pieno di compassione.
Capii che doveva essere colui che aveva aiutato Cole a sbarazzarsi del corpo, anche se i suoi abiti e le sue mani erano perfettamente pulite, senza neanche una goccia di sangue.
Il che mi fece inquietare.

La visita medica fu meno lunga di quanto avevo temuto.
Il dottore disinfettò le mie ferite e cucì il taglio sullo zigomo, poi mi concedette qualche pillola per alleviare il dolore.
Mi lasciò infine la carta da visita di un suo collega, uno psichiatra, e mi suggerì di contattarlo se ne avessi avuto bisogno.
Durante il tutto riuscii a restare lucida senza mai cedere agli attacchi di panico che minacciavano di assalirmi ogni volta che il dottore toccava il mio viso.
Cole rimase seduto sulla poltrona accanto al letto, seguendo attentamente ogni mia mossa.
La stanchezza era evidente sul suo volto, tradita dalle occhiaie insolite e dagli occhi iniettati di sangue. Il che mi fece sentire in colpa, anche se nel profondo della mia coscienza sapevo che non dipendeva da me.
Tuttavia, quando il dottore e Winston se ne andarono non potei far a meno di sperare che Cole non li seguisse.
Tutto il coraggio e l'orgoglio di cui mi ero sempre armata erano improvvisamente svaniti di fronte al trauma di quella notte. Forse perché né orgoglio né coraggio erano stati utili a salvarmi quando ne avevo più bisogno. O forse perché mi ero finalmente resa conto che quei due pur essendo sempre state considerate le più onorevoli virtù dell'uomo non erano altro che vizi latenti, pronti a rivoltarsi contro di te nei momenti più inopportuni.
Avrei dunque supplicato Cole a tenermi compagnia se avesse deciso di andarsene. Avrei pregato chiunque a non lasciarmi sola, perché altrimenti la paura sola mi avrebbe uccisa.
Perché dopo tutto quel che era successo, una piccola parte primitiva di me era ancora attaccata alla vita.

Tuttavia non dovetti più pregare per quella notte.
Dopo aver accompagnato i suoi amici alla porta, Cole tornò con una coperta di lana e circondò le mie spalle con essa. Poi avvicinò la poltrona al letto di Tom e si sedette accanto a me.
Mi sdraia su un fianco e mi strinsi protettivamente la coperta addosso, avvicinandomi al bordo del letto bramando la vicinanza del calore umano.
Cole si protese in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia affinché il suo viso fosse più vicino al mio. "Avanti, prova a dormire...sarò ancora qui quando ti sveglierai," sussurrò sfiorando la mia guancia con le dita.
Chiusi le palpebre e provai a rilassarmi confidando nel fatto che nessuno avrebbe potuto ferirmi in presenza di Cole.
La stanchezza e l'effetto della pillola concessa dal dottore poco prima non tardarono a trascinarmi in un sonno lungo e profondo.

È quasi ironico il fatto che mi addormentai sotto la protezione dello stesso gangster minaccioso che mi aveva terrorizzata con una sola occhiata qualche mese prima.

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