Capitolo 3: Salto nel vuoto

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Ivar si piegò sul collo del cavallo mentre sentiva le frecce sibilare vicino alle sue orecchie. Non aveva bisogno di girarsi per sapere che almeno otto, o forse nove cavalieri lo stavano inseguendo. Sentiva il rumore assordante degli zoccoli sul suolo alle sue spalle, le loro grida di incitamento, e il secco rumore del fodero delle loro spade che cozzava con i fianchi degli animali ansanti. Erano tanti, troppi, e volevano ucciderlo. Ivar questo lo sapeva con certezza. Non sapeva come si sarebbe liberato di loro, da solo, armato solo di un pugnale nascosto nello stivale e con quegli abiti scomodi e soffocanti.

Era fuori da Carlyon, il suo cavallo correva come una furia nelle campagne circostanti la città, lungo il corso del fiume Ultimo. Non avrebbe resistito ancora a lungo, l'animale era già sfiancato e i cavalieri alle sue spalle si stavano facendo sempre più vicini. Ivar non riusciva a pensare. Non sapeva cosa fare. Si sentiva disperato. Continuava a sentire il pianto del suo bambino nelle orecchie, il suono del collo spezzato di sua madre gli riempiva il cervello, e una furia cieca che montava nel suo petto cercava di convincerlo a fermarsi e sfidare lì, in campo aperto, tutti i suoi nemici. Ma sarebbe stato un suicidio. Lo avrebbero ucciso. Come Eirlys desiderava.

Grugnì quando una freccia lo colpì di striscio sulla schiena e incitò il suo cavallo a correre ancora più veloce. Il paesaggio sembrava non cambiare, la campagna si estendeva spoglia ad ogni passo che compiva, e non c'era un solo posto dove avrebbe potuto trovare riparo. Ivar non riusciva a pensare. Non capiva dove si trovava, non riusciva a distinguere quel terreno spoglio che percorreva velocemente, e non riusciva ad individuare una strada che avrebbe potuto portarlo alla salvezza. Scrollò la testa, cercando di far scomparire il pianto di Eoghan, e cercò di guardarsi intorno per individuare qualcosa, qualsiasi cosa, che gli indicasse la via della salvezza. Poi la vide, si ricordò, e capì dove si trovava. Immediatamente impallidì, rendendosi conto che la sua situazione era disperata.

Aveva due sole possibilità: proseguire dritto lungo la campagna brulla, sperando che i soldati alle sue spalle crollassero sotto il peso della fatica di quella corsa disperata, o deviare verso la costa, verso il bosco che circondava il maniero da caccia del re, dove si sarebbe potuto nascondere per affrontarli, un vicolo cieco. Ivar lo ricordava quel vicolo cieco, la scogliera che scendeva a strapiombo sul mare, il senso di vertigine che aveva provato quando da bambino si era spinto troppo in là attraverso il bosco. Era una situazione disperata, una scelta disperata, in entrambi i casi probabilmente sarebbe morto, con la seconda scelta quella probabilità era quasi una certezza.

Sospinse il cavallo a correre ancora più veloce ma lo sentì ansimare, rallentare, quasi sul punto di fermarsi. La prima via non era una possibilità, quell'animale era già sfiancato. Ivar riusciva a sentire il battito accelerato del suo cuore, era così forte che presto gli sarebbe scoppiato nel petto. Con forza costrinse il cavallo a deviare verso il bosco che si vedeva in lontananza. L'animale slittò, cercò di ribellarsi, poi riprese a correre sospinto dai colpi spietati del suo cavaliere. Ivar sentì i suoi inseguitori fermare la corsa, girarsi, parlottare e ridere fra di loro. Anche loro sapevano che era in trappola, come un cinghiale circondato dalle frecce dei cacciatori, e che sarebbero riuscito a catturarlo e ad ucciderlo.

Entrò nel fitto del bosco con sollievo, indifferente ai rami degli alberi che gli graffiavano il viso. Voleva disperdere i suoi inseguitori, costringerli a dividersi in quel labirinto di alberi e foglie e poi scappare di nuovo verso la campagna. Afferrò il pugnale nascosto nello stivale con una mossa fluida. Fece rallentare il cavallo, sempre più ansimante, e cercò di ascoltare il rumore assordante degli zoccoli che si avvicinava. Sentì il capo dare l'ordine di dividersi in gruppi da due, di setacciare l'intero bosco pur di trovarlo. Ivar sorrise, era esattamente quello che voleva.

Individuò i primi due soldati che parlottavano tra loro, le spade strette nelle mani. Sospinse il suo cavallo a correre verso di loro e, con un salto, si gettò su uno dei due uomini conficcandogli il pugnale nella gola. Caddero entrambi al suolo, Ivar sopra la sua vittima che gorgogliava e lo fissava con gli occhi sbarrati, e con un gesto repentino raccolse la sua spada caduta al suolo e si rimise in piedi per affrontare il soldato che non era ancora rinvenuto dalla sorpresa. Si scagliò contro di lui, ferendo il suo cavallo che cadde a terra con un tonfo e con un nitrito di angoscia. Il secondo soldato gli si avventò addosso, cercando di colpirlo con fendenti carichi di forza, ma Ivar era un guerriero esperto e di un'agilità sorprendente. Con pochi passi e colpi ben assestati, riuscì a disarmarlo, gli assestò un pugno alla mascella e gli conficcò la lama nel fianco, atterrandolo. Il soldato crollò urlando ma quella confusione attirò l'attenzione del resto dei soldati.

Ivar salì in groppa al cavallo del primo soldato, morto dissanguato al suolo, e lo sospinse a correre. Non aveva alcuna speranza di uccidere tutti quei sette soldati rimasti, erano troppi, alcuni degli ottimi guerrieri, e lui era solo. Ma non si sarebbe arreso. Individuò un altro gruppo di tre cavalieri e tentò di avventarsi contro di loro. Ne uccise uno, e affrontò i restanti con la spada in una mano e il pugnale nell'altra. Erano abili, veloci, con un fendente ben assestato lo ferirono ad una gamba e Ivar si ritrovò inginocchiato al suolo, il sangue che gli bagnava gli stivali, e la certezza che sarebbe morto in quel bosco, quel giorno, per mano di suo fratello. Continuò a difendersi, parando i colpi dei suoi avversari, ma era chiaro che non sarebbe stato in grado di ucciderli. Aveva solo una speranza e quella consapevolezza lo angosciava ancor di più di quella situazione disperata.

Ancora in ginocchio al suolo, parò un fendente diritto alla sua testa di uno dei due soldati e, rapidamente, lo colpì al volto, squarciandogli la pelle e costringendolo ad indietreggiare tra grida di dolore. L'altro cercò di avventarsi su di lui. Ivar deviò il colpo, si rimise in piedi, e risalì in groppa ad uno dei cavalli dei soldati. Immediatamente si diresse verso la luce in fondo al bosco, alla massima velocità, con gli zoccoli dell'animale che rimbombavano al suolo. Subito sentì gli altri cavalieri inseguirlo, li sentì gridare, incitare. Deglutì. Aveva paura, era terrorizzato, esattamente come da bambino.

La luce lo investì in pieno, per un attimo vide tutto bianco, poi il mare apparve immenso davanti ai suoi occhi e lo strapiombo cominciò ad avvicinarsi velocemente, passo dopo passo. Ivar ricordava come si era sentito sulla punta della scogliera, osservando le onde che si infrangevano ai piedi di quella parete di roccia piena di venature. Nessuno sopravvive buttandosi da qui, aveva pensato, nessuno. Ivar lo sapeva che stava per morire. Mentre sfrecciava in groppa a quel cavallo, inseguito dagli uomini che erano stati ai suoi ordini per tutti quegli anni, lo sapeva che sarebbe morto. Non avrebbe rivisto Eoghan, non avrebbe ucciso suo fratello. Sarebbe morto e nulla avrebbe avuto più importanza.

Lasciò cadere le armi al suolo e si concentrò solo sull'acqua davanti a sé, su quel mare infinito, sull'odore di salsedine, sul rumore delle onde. Sentì il cavallo opporre resistenza e bloccarsi a pochi metri dallo strapiombo. Ivar saltò giù con un balzo, mollando le redini, e corse verso la punta dello strapiombo. Chiuse gli occhi e si lanciò nel vuoto. Sarebbe morto, è vero, ma non per mano della spada di suo fratello. Il mare si sarebbe preso cura di lui.


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