L'Impronta dell'Odio, il Ricordo dell'Amore

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Parlare con Cara era bello e inquietante allo stesso tempo.

Non le importava di cosa pensassi di lei.

Aspettò in silenzio, tenendo le mani giunte in grembo e gli occhi chiusi. Muoveva le labbra senza emettere un suono, come se aprire la bocca fosse doloroso.

Riportare alla luce quella storia doveva costarle molta fatica.

Quando aprì gli occhi c'era una luce decisa nel suo sguardo. «Vorrei che tu capissi che le colpe sono mie. Il carattere dei miei figli, le loro azioni, la distanza di mio marito da tutti e tutto è solo colpa mia. Non intendo fuggire da questo e so che mi aspetta un giudizio molto duro da chiunque venga a conoscere questa storia. Ho guardato i miei ragazzi crescere a distanza. Sapere della sfiducia di Vandrin, di Tehor e Carim verso il prossimo e sapere che non posso fare nulla per riportare i tempi passati fa parte della mia punizione». Trattenne le lacrime a stento. «So che Tehor ti ha fatto del male e mi dispiace. Chi dovrebbe chiederti scusa sono io, non lui».

Raggelai. «No!». La interruppi prima che potesse proseguire. Non era colpa di Cara. Tehor era un adulto e nessuno gli aveva detto cosa fare. «Ha fatto quello che voleva, non l'hai costretto».

Era così bella con quel sorriso triste sul volto. Nonostante i fili grigi tra i capelli rossi e qualche ruga era elegante e minuta. Lasciava incantata chiunque la guardasse.

«Da bambino Tehor era molto dolce. Si prendeva cura di tutti. Aveva l'abitudine di alzarsi presto e pretendeva di aiutare gli stallieri nel dare da mangiare ai cavalli. Più di qualche volta ho trovato le cameriere che urlavano disgustate perché era ricoperto di fieno e letame fino ai capelli. Scivolava sempre, mentre cercava di portare fuori dalla stalla più peso di quanto le sue braccia potessero sopportare. Quando cadeva, sorrideva, nonostante il viso sporco e gli abiti ridotti a degli stracci puzzolenti. Sia lui che Van sono cresciuti giocando lì dentro».

Non riuscivo a immaginarli. Il Tehor che conoscevo mi aveva mandata a chiamare tramite un servitore e mi aveva usata nella biblioteca di Nartos, facendomi fare da esca.

Il Tehor che conoscevo non sorrideva felice, solo in modo distaccato e sprezzante.

Non sembrava la stessa persona che stava descrivendo Cara.

Comprese i miei dubbi con uno sguardo. «Non solo lui è cambiato, lo sono anche Vandrin e Carim. Non li posso vedere, ma Tehor mi racconta di loro e delle loro vite». Accennò a un sorriso, mentre una lacrima aggirava il suo controllo e le scivolava sulla guancia. «Ci sono dei momenti in cui meriterebbero tutti e tre una sculacciata. Poi mi rendo conto che il più piccolo ha sedici anni ed è un uomo. Ne aveva nove quando l'ho lasciato. Chi sono io per avere ancora qualche diritto sulla loro educazione?».

Tremava, scossa dai singhiozzi. Viveva con i sensi di colpa e non c'era parola al mondo che potesse consolarla. Era fragile e forte allo stesso tempo. Non cercava di scusarsi davanti a me. Forse avrebbe voluto il perdono dai figli, ma non si sarebbe mai scusata con nessun altro.

Non sapevo cosa fare, o cosa dirle, per farla smettere di piangere. Non ero mai stata molto brava a parole.

Fynir avrebbe trovato quelle giuste, Mend l'avrebbe fatta ridere, Bail l'avrebbe esortata a tirarsi su. Io riuscivo solo a fissare le lacrime che correvano sulle guance. Non sapevo cosa dirle, così le strinsi le mani.

Erano piccole, come quelle di una bambina, anche se sotto le dita sentivo i calli e la pelle secca. Non erano più le mani curate di una nobile, ma quelle di una contadina. Anche la pelle scurita parlava di una donna che passava molto tempo sotto il sole.

Rimanemmo in silenzio, le sue mani nelle mie, finché non si calmò.

«Grazie, Rin» disse, asciugandosi una lacrima con un dito. «Va meglio».

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