La Voce che Non Si Può Sentire

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Insegnare la magia ai gemelli non era un'impresa facile.

Iniziavo a rimpiangere i miei lavori cacciando i mostri più deboli. In confronto a quei due, inseguire le veloci volpi di fuoco a due code era facile.

Prima di tutto, dovevo riuscire ad acchiappare i gemelli.

Ancora fremevo ripensando al giorno prima, quando i piccoli si erano nascosti una pozza di fango e mi avevano costretto a stanarli.

Tehor aveva passato il tempo a guardare i miei scarsi risultati sapendo dove si erano mimetizzati.

Avevo impiegato un'ora a chiamarli ovunque, prima che una ciocca dei capelli di Mari mi avesse rivelato la loro posizione. Ma invece di correre via come avevano fatto nei giorni precedenti, erano saltati fuori sporchi da capo a piedi pretendendo di abbracciarmi. Tehor li aveva incitati, dicendo che il fango non aveva mai ucciso nessuno.

Mi ero ritrovata a ridere, con quei due stretti addosso e tra me e Tehor era passato un sorriso e subito dopo si era voltato da un'altra parte continuando a sghignazzare. Diventava ogni giorno più allegro e aperto, assomigliando sempre di più a un ragazzo di diciannove anni che giocava con i fratelli. Il Tehor che avevo conosciuto stava scomparendo, sostituito da uno a cui piaceva ridere e, spesso, mi ritrovavo a guardarlo chiedendomi come avrebbe potuto essere la sua vita se quel Mago del Vento non fosse entrato nella casa dei Car'Leindros.

Mi stavo divertendo a passare le mie giornate con i bambini, ma non mi ero dimenticata della mia gilda. Scrivevo ai miei amici ogni tre giorni per rassicurarli e avere notizie su Bail. Le risposte di Fynir mi avevano tranquillizzato: Bail si era svegliato e si era ripreso, mentre il magistrato e Vyniana procedevano con le indagini. Queste notizie, insieme all'aria allegra che si respirava a casa di Cara, mi avevano aiutato ad ambientarmi e a fare amicizia con i gemelli; e i due bambini si applicavano, imparando in fretta.

Quando si concentravano riuscivano a disegnare quasi correttamente i cerchi magici più semplici che proponevo e io li incoraggiavo a riprovare quando sbagliavano. La sensazione che avevo provato scrivendo i primi cerchi magici era rimasta con il passare degli anni, così come la frustrazione per tutti i tentativi falliti.

Solo provando e riprovando la mente memorizzava. La magia faceva parte di noi, ma questo non voleva dire che non dovessimo imparare a conoscerla.

Un po' come stavamo facendo io e Tehor.

Ci stavamo conoscendo a vicenda e quello che vedevo in lui ora non era lo stesso che avevo visto a Nartos. A volte mi chiedevo se fosse la stessa persona della biblioteca.

Senza che gli chiedessi nulla Tehor aveva procurato abbondante papiro, penne e inchiostro in un'escursione al villaggio. Come me sapeva che i bambini avevano bisogno di molto materiale su cui esercitarsi. A fine di una mattinata c'erano sempre decine di fogli ricoperti di cerchi, sparsi per il cortile.

Atreis era riuscito a darmi soddisfazione quando aveva rimpicciolito una foglia per la prima volta, disegnando il cerchio che gli avevo appena insegnato.

Si era messo a cantare a squarciagola correndo per il cortile dieci minuti buoni, prima che riuscissi ad acchiapparlo e farlo risedere accanto alla sorella imbronciata.

Lavorare fuori avrebbe dovuto mitigare il loro carattere. Il vento avrebbe dovuto calmare la loro irrequietezza, ma avevo l'impressione che li sferzasse di energia.

Non avevo idea di come sarei riuscita a tenerli fermi una volta insegnato loro a volare.

Nella gilda era Crioe a insegnare il volo ai novizi. Era un vecchio mago rigido che incuteva soggezione quasi quanto Vyniana, però come insegnava lui il legame che avevamo con il Vento non ci riusciva nessuno. Amava la nostra magia e voleva che riuscissimo a percepirla in tutta la sua potenza. Per questo insegnava a volare: era la massima espressione della nostra magia.

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