Capitolo 93 - Per sapere la verità bisogna ascoltare due bugiardi

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Hai visto che occhi? É malato.
E' malato di sogni.
Siamo tutti malati di sogni.
Ecco perché siamo qui.
Charles Bukowski

Sei anni prima

Ero seduta nella sala d'aspetto dell'ospedale, mentre attendevo di poter vedere il bambino che avevano preso in cura. Ascoltavo i rumori del luogo, trovandoli familiari: il tintinnio degli strumenti, il cigolio delle ruote dei letti e dei carelli che venivano trasportati dentro e fuori, il lieve scricchiolio delle scarpe dei portantini, l'eco delle loro voci distanti. Cercai di cancellare i suoni dalla mia coscienza senza riuscirci. La mente mi giocava brutti scherzi, i ricordi si sovrapponevano indebolendo il controllo delle mie emozioni. I traumi legati a queste pareti mi si riversarono addosso e non potei fare niente per impedirlo.

Avevo ferite in posti impensabili. Erano mappe segrete e diagrammi delle mie storie personali. La maggior parte si erano ricucite, lasciando solo cicatrici, ma alcune non guarivano. Certe ferite sapevo già che le avrei portate con me ovunque e, anche se si erano rimarginate da tempo, il dolore restava. Soffocante e invadente.

Strinsi tra le dita l'orso che mi ero fermata a comprare come ancora di salvezza o come semplice compagnia. Mi pentii di essere venuta, non facevo altro che metterlo in pericolo. Ero stata attenta, ormai avevo imparato a far perdere le mie tracce, ma non c'era da fidarsi. Eppure, nonostante la consapevolezza e il rischio, ero qui.

Un'infermiera uscì dalla stanza e mi raggiunse. «Non si lascia toccare da nessuno da quanto ci è stato portato, ma se vuole vederlo ora è possibile. Faccia solo attenzione, tende ad avere degli scatti improvvisi di agitazione.»

Sentii il mio cuore sprofondare, poi annuii. «Ha detto qualcosa?»

«Non ha detto una sola parola ed evita il contatto visivo con tutti» mi avvisò.

Mi avviai verso la stanza dopo averla ringraziata. Il bambino era immobile coperto da un semplice lenzuolo e mi sembrò ancora più piccolo in quel letto. Esitai sulla porta, poi mi feci coraggio ed entrai cauta. «Ehi...» Si voltò verso di me e sgranò gli occhi nel riconoscermi. Per un attimo temetti di aver risvegliato i suoi incubi. Strinse forte le lenzuola tra le dita. «Guarda cosa ti ho portato.» Dondolai l'orsacchiotto tra le mie mani. Non si mosse, né mostrò di aver udito le mie parole. «Ti dispiace se mi siedo accanto a te?» domandai, e poi, prima che il piccolo potesse rispondere, continuai. «Sono sola anche io, vedi.» Gettò uno sguardo alle mie spalle. «Allora ho pensato che potevo starmene un po' qui con te. A farti compagnia.» 

Si scostò per farmi spazio. Mi sedetti e cercai di nascondere il dolore acuto che mi colpì il fianco; dopotutto arrampicarmi sulla recinzione non era stata una buona idea. I ricordi della festa riaffiorarono e li cacciai via in fretta, così com'erano venuti. Tornai concentrata e non mi sfuggii che gli occhi del bambino fossero fissi e con una certa trepidazione sul pupazzo tra le mie mani. Glielo porsi e, dopo un attimo di esitazione, allungò le mani per prenderlo. Se lo studiò prima di stringerlo al petto. Non mi sorrise, non disse niente, ma sembrò ringraziarmi con una semplice occhiata. Un velo scese sui miei occhi. Volsi lo sguardo verso la finestra: fuori c'era il vento, avrei voluto che mi portasse via insieme alle mie colpe.

Non c'era problema così terribile a cui non potessi aggiungere un po' di senso di colpa per renderlo ancora peggiore. Una parte di me sperava che qualcuno si sarebbe svegliato e sarebbe venuto a prendermi, così non avrei dovuto più vivere immersa in questa bugia. Ma nessuno sarebbe venuto e nel silenzio che seguì, compresi la natura della mia nuova maledizione: l'avrei fatta franca insieme a tutti loro. Perché se vedevo ogni crudeltà e ogni ingiustizia che avevo il potere di fermare, e non facevo nulla, allora mi rendevo partecipe di qualunque colpa. Di ogni cosa.

L'Odissea Dell'Animo [Completa] Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora