Capitolo 56 - In mostra, in apparenza

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Ho bisogno di smettere di essere quello che tutti pensano che sono.
Sarah Addison Allen

«Voglio la nuova collezione qui al centro mentre...» Istruii le mie assistenti su come organizzare il salone, sulla disposizione di ogni quadro e scultura. La sistemazione dell'illuminazione e ogni decorazione necessaria per abbellire l'ambiente.

«Le Lacrime di Frejya dove vuole che glielo mettiamo?»

Fissai a lungo il quadro in questione, lasciandomi avvolgere da una strana malinconia. «Sostituiscilo con il Prescott e mettilo via insieme agli altri.» Fu doloroso vederlo togliere dalla parete, così come il vuoto che lasciò.

«Carmen.»

Mi voltai e Morgan mi si avvicinò, guardandosi in giro, mentre le mie assistenti si dileguarono per lasciarci spazio. Gli sorrisi. «Che te ne pare?»

«Non c'è che dire. È impressionante la collezione che hai scelto di allestire.»

Seguii il suo sguardo orgogliosa del mio operato, e non potei fare a meno di non notare una leggera sfumatura nelle sue parole. «Ma?»

«È impersonale. Hai tolto ogni traccia di te.» 

«Era proprio quello che volevo sentirmi dire. È questa la sensazione che deve trasmettere», dissi. «E non hai visto il resto. Seguimi.» 

M'incamminai verso l'altra sala, spensi le luci, lasciando che il buio ci avvolgesse. Solo una leggera illuminazione mi consentii di muovermi con tranquillità. Sentii gli occhi curiosi di Morgan su di me. Afferrai il Tablet lasciato in bella mostra e, aprendo il programma apposito, accesi la proiezione. Socchiusi gli occhi quando la luce che emanò mi sommerse. «Sei il primo a vederlo. È una sorpresa. Ma Refik Anadol ha appoggiato il mio progetto, esponendo qui, alla mia galleria, alcune delle sue realizzazioni in tema 'Di ricordare e sognare'» iniziai a spiegargli. «Il media artist si serve dell'intelligenza artificiale, usando gli spazi interni o le facciate esterne di edifici, per realizzare un lavoro particolare di dati che lui chiama data sculptures o data paintings composti da informazioni di ogni genere. Reinventando in ogni progetto le funzioni e le forme, Anadol sperimenta con gli spazi, aggiungendo nuove sfaccettature all'esperienza urbana attraverso la memoria istituzionale e collettiva.» Mi voltai verso Morgan e lo trovai intento a fissare le proiezioni. Mi presi due secondi per ammirarlo. Quando era concentrato corrugava leggermente la fronte, assumendo un'aria alquanto seria e professionale. 

Interruppi la mia analisi per invitarlo a entrare letteralmente dentro una sua opera. Una stanza quattro per quattro. L'infinito tra quattro mura. 

«Un edificio, un muro, può sognare? Come si fa a dimostrare che il nostro cervello è in grado di rievocare dei ricordi? Come le tecnologie possono davvero cambiare la nostra concezione dello spazio?» La voce dell'autore risuonò sopra le nostre teste.

«Sulla fusione tra tecnologie, arti audiovisive e architettura, Anadol continua a porsi nuove domande esplorando le possibilità che l'utilizzo dell'intelligenza artificiale offre sulla digitalizzazione della memoria istituzionale e i possibili usi in altri settori, dalla sanità alla storia dell'arte. Aveva sempre sognato di cambiare e trasformare gli spazi, fin da bambino, e Infinity Room è in realtà il prodotto di quei sogni. Anche se è solo una stanza, è un luogo che necessita di costruzione, quattro proiezioni, disegni complessi e ingegneria. Fu presentato inizialmente a Istanbul. Successivamente si è trasformato in un progetto planetario con quasi due milioni di visitatori in ventinove città ed è stato in ogni continente del mondo. È qualcosa da non credere.» Girai su me stessa, continuando con il mio monologo. «Il suo obbiettivo è cercare di dare vita a un'idea che sia capace di essere indipendente da ogni circostanza ma, allo stesso tempo, essere cosciente di ciò che la circonda; un'idea che spinga la gente a porsi delle domande e a interagire.... Penso sia una delle più grandi sfide in cui un artista possa imbattersi. Se non c'è sfida, in fondo, l'artista non ha possibilità di crescere.» Morgan, dopo aver studiato gli effetti di luce, le proiezioni attorno, abbassò gli occhi su di me. «Come tutti, ama ricordare e parlare dei suoi ricordi. E siamo tutti consapevoli che il concetto di tempo ha una forte correlazione con la memoria.» Notai una particolare luce attraversare le sue iridi nere. «È sempre stato ossessionato dal ricordo. Invece di preoccuparsi di quale memoria appartiene a chi, ha separato l'ego dai dati e l'ha ricercato nei segnali energetici che sono la rappresentazione del momento di reminiscenza. Come risultato, ha trasformato questi risultati in sculture. Il suo sogno era quello di localizzare le opere in modo che potessero diventare parte dell'architettura e trasformarsi in un muro mediatico, ad esempio sfruttando l'altezza del divario della galleria. A causa delle dimensioni e della relazione con la parete che crea lo spazio, va al di là di quello che noi chiamiamo quadro, con bordi e cornice. Lui pensa, per quanto riguarda la nostra percezione spaziale, che una parete digitale di cinque o sei metri possa essere considerata una scultura. È lo è. Una scultura vivente. Può un edificio sognare? Può un edificio vivere? Può imparare da sé stesso? Probabilmente sì. Con Refik Anadol è possibile» terminai. 

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