24. Immagino sia lo stesso per te

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Mancava un giorno alla festa di compleanno di Luke ed io ed Eco non ci eravamo scambiate una parola. Era passata in negozio a prendere qualche tempera e altri aggeggi per dipingere o che sarebbero serviti ad Andrew, ma tranne qualche sguardo e un sorriso non vi fu nient'altro. Jack, mi diceva Nicolas, si era preso una brutta influenza, perciò al magazzino stavamo solo io e Nic, con cui ormai avevo stretto una grande amicizia.

Quando tornai a casa dalla mia solita giornata lavorativa ed entrai in camera mia, mi ritrovai Eco davanti, seduta sulla sedia girevole vicino alla mia scrivania, con addosso la sua camicia a quadri che avrei dovuto riportarle.
«Che ci fai qui?» le chiesi sorpresa.
«Ciao Fata Turchina. Non ci parliamo da un po'» disse, senza rispondere alla mia domanda. «Maggie mi ha chiesto di spolverare e mettere a posto la vostra soffitta. Per farmi perdonare per la scorsa sera, sai». Io annuii. «Mi dai una mano?»
«A dire la verità io-» cominciai a dire, ma Philipe mi interruppe chiamandomi dalla soglia della porta.
«Billie, hai visto il caricatore del mio telefono?» domandò senza salutare Eco.
«In cucina, forse. Mi sembra di averlo visto lì»
«Grazie. E per favore, dii a tua madre di non spostarmi la mia roba. Odio quando lo fa e non è la prima volta».
Una volta uscito, Eco mi guardò ghignando.
«È frocio, non è vero?»
«Cosa? No, ma che dici?»
«Andiamo, si vede lontano un miglio!»
«Philipe? Impossibile. È praticamente omofobo. Anzi, lo è»
«Fidati, ho una sorta di radar per questo genere di cose. Quanto scommettiamo che Philipe si scoperà Luke? O viceversa» pronunciò divertita.
«Tutto quello che vuoi, tanto non accadrà mai»
«Ripeto, ho fiuto per queste cose» affermò guardandomi fissa, con un ghigno in volto. Sbuffai e alzai gli occhi al cielo. «Mettiamola così: se tra quei due ci sarà qualcosa, anche un minimo bacio a stampo, tu mi farai da modella ed io ti fotograferò»
Rimasi stupita per un attimo.
«Tanto hai già perso in partenza»
«Il mio fiuto non sbaglia mai, Billie» affermò ghignando. «Quindi mi aiuti con la soffitta?».

Io le tenevo la scala mentre lei saliva fino al penultimo piolo.
«È buio qui sopra» disse, avendo tutto il busto inserito nel buco «e pieno di polvere».
«Non ci saliamo da tanto. Mia madre non vuole salirci» pronunciai, rimembrando quelle volte in cui salivo in soffitta con mio padre e con una torcia e un lenzuolo bianco facevamo le ombre cinesi. Era per questo motivo che mia madre aveva chiesto a Eco di fare tale lavoro. Troppi ricordi in quella soffitta, per mia madre era come premere il coltello su una piaga.
«Oh» disse, «tieni» aggiunse scendendo da un piolo.
«Cos'è?»
«Non lo so, un insetto»
A quel punto urlai spaventata scrollando vivacemente la mano. Ho sempre odiato gli insetti. Lei rise di gusto.
«Vaffanculo»
«Dai, sali».
Accendemmo la piccola lampada a batteria appesa al soffitto che, stranamente, non aveva cessato di funzionare e mi guardai attorno, notando una quantità immensa di cianfrusaglie. Tra queste ritrovai alcuni vecchi giocattoli miei e di Finneas, vestiti di papà e l'abito da sposa di mia madre. Tutto il nostro passato era rinchiuso in una stanza di pochi metri quadri, sporca di polvere e abitata dai ragni. Questo pensiero mi provocò una fitta al petto.
Poi l'attenzione di Eco fu catturata da un baule in cuoio. Lei lo aprì, e una nube di polvere si alzò facendoci tossire. Trattenni il respiro quando, sorpresa, vidi sopra tutti gli oggetti una foto di mio padre, davanti al Mulino, un bar di Slaughter in cui lavorava come cameriere. Mi accovacciai a terra e presi in mano la fotografia.
«È tuo padre?» domandò Eco. Io feci con la testa, perché in quel momento la voce non mi usciva dalla bocca. Papà. Scavando dentro al baule scoprii che erano situate, impolverate, tante altre fotografie ritraenti me e Finneas da piccoli, mamma e papà appena innamorati in vacanza a Vienna e altri momenti catturati da una macchina fotografica. Era quella la mia vita, la mia vita vera. Mentre ora tutto si era sfasciato, la casa stava marcendo e con lei perfino io. Era come se fossi la spettatrice di un'orribile commedia, ma al tempo stesso anche l'attrice protagonista e al tempo stesso ancora anche la scenografa. Mi ostinavo ad aspettare il momento in cui i sipari si sarebbero chiusi, le luci si sarebbero accese ed il tutto sarebbe terminato con uno scroscio di applausi. O forse no, nessuno applaude, perché tutto questo fa cagare, come le opere di mamma, pensai. Non volevo che anche la mia vita fallisse come tutte le commedie messe in scena da mia madre. Tutto era fittizio. Volevo entrare in quelle foto, riprendermi la mia vita e rivivere quei momenti in cui mi sentivo reale, vera, viva, dove la pizza aveva il sapore della pizza e l'erba il profumo dell'erba. E non volevo più essere un corpo bianco, senza forma né colore, incapace di sentire altre emozioni tranne che rabbia, odio e dolore. Era possibile tutto ciò? Una lacrima cadde sulla foto di mio padre ed Eco si avvicinò a me. «Mi dispiace tanto per la tua perdita» disse, «Io ti capisco. Anche a me capita di guardare le foto di mia madre e ricordarla ridere, mangiare, bere un bicchier d'acqua, camminare... fare qualsiasi tipo di azione quotidiana. Immagino sia lo stesso per te» aggiunse. Io annuii senza dire una parola. Mi aveva capita in pieno. «Il bello della fotografia è che sono pezzi di memoria materiali. È per questo che sono innamorata di quest'arte». Fece qualche secondo di pausa, accarezzandomi la spalla. «Però una persona così importante non può stare rinchiusa dentro un baule sporco in mezzo a questo casino, mi sbaglio?» pronunciò. Mi asciugò una lacrima e mi baciò sull'angolo sinistro della bocca, ed una scossa improvvisa mi pervase il corpo.
Così mi convinse a mettere a posto tutta la soffitta, come se stessi riordinando il mio cervello e mi stessi prendendo cura del mio passato, cercando di far tornare la parte più delicata della casa come era in precedenza.

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