1. OSSIMORO

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Billie

«Hai fatto quel che ti ho chiesto? Hai scritto qualcosa sul tuo diario?» mi domandò Kim insistente. Annuii. Dovevo scrivere una lettera alla Billie del passato ma in verità non avevo scritto un cazzo di niente. Erano cavolate inutili.
«Sì, qualcosa ho scritto, ma nulla di interessante. E non è proprio il mio diario, è solo un quaderno; che uso per la terapia. Non lo sento mio, è solo un oggetto che ho e che uso ma che non è mio» dissi, e lei alzò gli occhi dal suo block notes, guardandomi fissa con la penna in mano.
«Ok, ho capito. Credi che un giorno me lo farai leggere? Avrò questo onore, di poterlo leggere?» chiese in seguito sorridendo.
«Quando tutto questo sarà finito sì, per ora non voglio condividerlo con nessuno. Non me la sento. È troppo personale» risposi. Era inutile scrivere su quel quaderno: delle parole incise su un foglio non possono cambiare la realtà.
«Capisco» disse, «Per la prossima volta vorrei che scrivessi una lettera alla te del futuro, ma devi promettermi che le dirai e le chiederai tutte le cose che vuoi. Devi essere la più sincera possibile, altrimenti è tutto vano» concluse, e finì di scrivere qualche cosa sul blocchetto di fogli che aveva sulle ginocchia, anche se non avevo detto ancora praticamente niente dall'inizio dell'incontro e quindi non capivo che cosa stesse scrivendo.

Kim era la mia psicologa. Be', in verità non era proprio mia, era la psicologa di molti altri ragazzi come me. Lavorava in un centro medico-psicologico per giovani con difficoltà, coppie sull'orlo di una rottura, famiglie ormai praticamente distrutte. Soprattutto si occupava di giovani. Nel suo studio c'era sempre la sua gattina a macchie bianche e nere Carla: Kim la portava con sé ovunque, anche a lavoro, e non le importava se un suo paziente era allergico al pelo del gatto. Era da poco che frequentavo quel centro, solo da qualche settimana. Si trovava a Burford, una cittadina a pochi chilometri da Upper Slaughter, dove abitavo io.
Alla fine ho sempre considerato gli psicologi una stronzata assurda. "Stare seduti e parlare dei propri problemi non risolverà un cazzo, semplicemente ti farà accettare e ammettere a te stesso il fatto che la tua vita sia effettivamente una merda". Erano queste, più o meno, le parole che dissi a Kim la prima volta che arrivai al centro. Ovviamente lei non la pensava così. Mi offriva sempre delle caramelle alla frutta e aveva un tono di voce calmo e gentile, pacato. Io sono una che inquadra subito le persone con cui si rapporta. Riesco a identificare una persona abbinando ad essa forme, colori, temperature, odori. Kim era un ovale beige con qualche sfumatura di giallo ocra, tiepido e morbido, profumava di frutta. Aveva ascoltato per tutto il tempo della sua carriera chissà quante storie sventurate delle vite dei suoi pazienti. Era come se fosse colpita da schegge avvelenate provenienti dall'esterno, ma non venisse mai forata da esse. Mi domandavo come fosse la sua di vita, invece. Lei me ne parlava con tranquillità durante i nostri primi incontri, quando non mi degnavo di dire una parola. Per mettermi a mio agio si era messa a raccontare di lei. Aveva una figlia e un nipotino piccolo, aveva divorziato con il marito da più di dieci anni, però erano rimasti in buoni rapporti. Mi raccontava che la storia con il suo ex marito non la rendeva felice, così ha mollato tutto. Perché non ha senso fare una cosa se non ti rende felice, non ne vale la pena, diceva. Le piaceva viaggiare e avrebbe voluto andare via da Burford, ma per il lavoro non ha mai avuto la possibilità di andare troppo lontano. Mi parlava di cose di questo genere, le prime volte che mi presentavo lì. Mi disse che se non volevo parlare potevo scrivere i miei pensieri sopra un quaderno. Mi disse che in quel quaderno potevo scrivere tutto quello che volevo, anche solo una frase, anche solo una parola, ma dovevo farlo ogni giorno. Inutile dire che fino ad allora non lo avevo nemmeno mai aperto.
Se mi obbligano a fare qualcosa mi passa la voglia di farla. Ci provai, a scrivere quella lettera e qualunque altra cosa, ma non mi veniva in testa niente. Ci pensavo, ma le pagine rimanevano bianche. Io ero bianca, la mia testa era bianca e le poche parole che uscivano dalla mia bocca nelle sedute con Kim erano bianche. Non sono mai stata quel genere di ragazza che ama parlare di sé e odiavo dovermi confrontare con lei, anche se era indubbiamente piacevole come persona. Ma dopo l'accaduto di mio padre, ero praticamente stata costretta dai medici a fare almeno una seduta ogni settimana. Prima di lei ero seguita da un altro terapista, privatamente, un uomo sulla quarantina che mi trasmetteva solo una profonda angoscia. Era per questo motivo che dissi a mia madre che non volevo più andarci, perché mi metteva angoscia. La differenza con Kim era che i nostri incontri erano per di più paragonabili a delle semplici chiacchierate. Non mi sentivo troppo malata. Non passavo un'ora a parlarle dei miei problemi traumatizzando il gatto che stava ad ascoltare sdraiato a terra. Il nostro era uno scambio emotivo, così lo chiamava Kim. Lei mi parlava di lei e, se ne avessi avuto voglia, io le avrei parlato di me. Kim diceva che se non avesse fatto così con i suoi pazienti, avrebbe terminato le sue giornate senza possedere più le forze per aver assorbito tutti i loro malesseri. Diceva che non bisogna mai farsi prosciugare tutte le nostre energie dagli altri ogni volta che cerchiamo di aiutarli. Non sapevo ancora che queste parole mi sarebbero tornate poi utili, dopo qualche mese.

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