Capitolo 2 Ricatto

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Don Giulio l’attendeva seduto a capo della lunga tavola imbandita. L’aria del volto era severa ed egli pareva assorto in dialogo con Martina finché mostrò d’aver notato la sua presenza e subito si alzò. Lo sguardo era d’ammirazione.

–La vostra bellezza, baronessa, rischiara questa cupa giornata– disse con un rapido sorriso.

Anzela s’accostò alla sedia che le indicava e accettò che la rimboccasse sotto di lei perché s’accomodasse.
Con un leggero cenno del capo lo ringraziò.
Martina volteggiava intorno al tavolo, con il bricco del latte, che posò al centro, sparì, ritornò con un piatto sontuoso colmo di focaccine il cui aroma esaltava l’aspetto appetitoso, lo poggiò e, sorridente, interrogò la fanciulla, se potesse gradire qualcos’altro.
Caterina era impaziente. Attendeva che don Giulio realizzasse ciò che a lei non era riuscito: convincere Anzela a trattenersi al castello; e voleva sorvegliare che accadesse, poiché in caso contrario era decisa a metter bocca anche lei nella faccenda.
Infine, ansiosa di restare sola a servire, cacciò con modi bruschi la servetta in cucina. La sua manovra non sfuggì al padrone poiché anch’egli fremeva di restar solo con la fanciulla, senza orecchie e giudizi indiscreti, e s’affrettò quindi a congedarla nella stessa maniera. Con aria scontenta, Caterina riluttante obbedì.

–Vedo che siete già pronta a lasciarci, baronessa, avete tutta questa premura?– domandò l’uomo, appena la scomoda governante ebbe rinchiuso le porte dietro di sé. Il suo tono pareva beffardo ma lei non mostrò di accorgersene.

–Sì, signore, … non desidero importunarvi oltre. Il patto è concluso, no?

–Sì, il patto è concluso. Dove andrete?
Anzela abbassò gli occhi sul piatto.

–Non so … Ancora non so ...

–Non sapete?

–… Cercherò una locanda.

–Una locanda? … Non avete dei parenti? … Perché non mangiate? Su, mangiate.

Gli occhi di Anzela si gonfiarono di lacrime.
La paura cresceva impetuosa; l’imminenza del commiato faceva sorgere nel suo cuore la speranza che egli le proponesse di prolungare il soggiorno. Lo desiderava … e lo temeva, anche se l’atteggiamento del principe nei suoi confronti, dopo la promessa, era sempre stato corretto.
Ma lui non diceva nulla.
Aveva cominciato a sorseggiare del latte dal bicchiere, e più non la osservava, come fosse immerso in altri pensieri e non s’accorgesse del suo stato di subbuglio o anzi, decidesse intenzionalmente d’ignorarlo.

–Ah, come sono sciocca! Son stata io a domandare d’andar via. Non è forse guarito? Sentivo d’esser di troppo. Avrei desiderato mi prospettasse un aiuto ulteriore per Mighele … quanto lo speravo … che illusa! Confidavo avesse preso a cuore la mia causa … sono un’ingenua, una bimba ingenua … perché avrebbe dovuto farlo? Non ha nemmeno insistito perché mi trattenessi al castello!

Teneva gli occhi chini perché la forte commozione che l’agitava non trapelasse e nel frattempo s’impegnava nel mordicchiare un trancio di pane, poiché, nonostante l’angoscia, lo stomaco contestava d’esser vuoto.
I secondi parvero eterni. Il giudice non la fissava e taceva, concentrato, in apparenza, sul cibo che inghiottiva, con una calma tanto pacata da risultare molesta. Il ticchettio leggero della pioggia sui vetri aggravò il silenzio nella sala.
D’improvviso, senza dar segno d’aver finito il pasto, l’uomo s’alzò in piedi e s’accostò alla finestra, vi sostò e sbirciò dalle cortine, come fosse attratto dal tempo che peggiorava; poi, con fare accigliato, incominciò a passeggiare lungo la stanza, le mani congiunte dietro il dorso.
Le iridi di Anzela lo seguirono turbate nel suo pensoso cammino: cosa accadeva? Perché s’era alzato? Perché taceva?
Infine egli s’arrestò a breve distanza e guardandola fissamente in volto disse:

Il Patto DiabolicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora