Capitolo 15 L'usuraio

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L’usuraio, Antonio Baghino, era genovese di nascita, di famiglia ricca, orafo di mestiere, uomo abile e astuto, giunto in Sardegna molti anni or sono, in età ancora giovane, alla ricerca di avventure

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L’usuraio, Antonio Baghino, era genovese di nascita, di famiglia ricca, orafo di mestiere, uomo abile e astuto, giunto in Sardegna molti anni or sono, in età ancora giovane, alla ricerca di avventure.
Egli aveva aperto, vicino al porto, una rudimentale bottega, in cui s’occupava principalmente di cambio di monete e di commercio in pietre preziose e gioielli e in un batter d’occhio s’era ritrovato ricco e famoso. Tuttavia si sapeva che l’uomo s’occupava sottobanco anche d’un’altra mansione molto più redditizia delle prime citate: cioè imprestava soldi e riscuoteva il suo con gli interessi, o accettava oggetti di pregio come pegno in cambio di esigue somme di denaro e capitava sovente che se ne appropriasse, considerato che i possessori, costretti a restituire molti più soldi di quelli che avevano ottenuto in prestito, trovavano difficoltoso raggranellare i denari sufficienti per riscattare la loro proprietà.
L’interesse che il furbo mercante pretendeva sulle somme erogate non era mai molto alto, ma comunque al disopra di quello bancario, e ciò gli consentiva di attirare molti clienti che, per mancanza di garanzie, non potevano rivolgersi alle banche, oltreché di sfuggire all’accusa di usura; tuttavia quando costoro, ed era la norma, non riuscivano a pagare i debiti nel periodo concordato, gli interessi improvvisamente raddoppiavano costringendo i malcapitati a grandi esborsi di denaro o a rinunciare a  beni di grande valore in cambio dell’estinzione del prestito.
Il suo lugubre negozietto era situato sul lato sinistro di una stradina lastricata in pietra, stretta e buia, rinchiusa da alte pareti in tufo di palazzi abitati da povera gente. I balconi dalle nere ringhiere barocche in ferro lucente, come sporgevano all’esterno, contribuivano ad accentuare la tetra oscurità del luogo. Era uno dei radi negozi della via, insieme con un falegname, un fabbro e un locale equivoco che si vociferava fosse un bordello mascherato da taverna. 
Il cavallo nero procedeva al trotto lungo la strada e gli zoccoli risuonavano sonoramente nel selciato. L’ora era tarda e non c’era un’anima in giro. Mighele sperò che il Baghino non avesse ancora chiuso la bottega anche se aveva accumulato molto ritardo rispetto all’orario concordato: durante il tragitto una delle ruote della carrozza s’era divelta e tutti gli sforzi suoi e di Jaime non erano serviti a ripararla. Dopo mezz’ora di vani tentativi, il giovane aveva preso la decisione di staccare dal tiro il cavallo più veloce, di montarlo e di affrettarsi a raggiungere il mercante, lasciando nelle mani del fedele cocchiere l’incarico di provvedere all’aggiustatura della carrozza.
Ormai in prossimità del negozio, fermò il cavallo, smontò e proseguì portandosi dietro l’animale per la briglia.
Una donna ancora giovane, vestita succintamente, con le labbra sgargianti di rossetto carminio, gli passò accanto, rallentò e gli gettò una lunga occhiata, poi gli indirizzò un sorriso smagliante mettendo in bella mostra una lunga fila di denti gialli di tabacco. Constatato con dispiacere che il giovane non mostrava alcun interesse per lei nonostante la disponibilità dimostrata, lo ignorò e proseguì la sua strada.
L’insegna della bottega era immersa nel buio ed egli era stato in quel luogo una sola volta ma la riconobbe, s’avvicinò e notò con sollievo che la porticina era ancora aperta.
S’affacciò senza lasciare il cavallo e vide che sul banco c’era una lampada a olio che illuminava tiepidamente l’interno; provò a chiamare:

-Signor Baghino! Sono arrivato! Mi dispiace del ritardo, ho avuto un guaio!

Nessuno gli rispose. Si decise a lasciare il cavallo ed entrò. La bottega era molto piccola e spoglia, senza finestre; vide il banco di circa un metro e mezzo, alto fino alla sua cintola, vuoto; la sedia discosta quanto basta per far pensare che l’uomo si fosse alzato in piedi, la scaffalatura in legno addossata alla parete dietro il banco contenente oggetti vari, soprattutto gioielli di poco conto in teche trasparenti, qualche scatola accatastata negli angoli che rendeva più spiacevole lo squallore dell’ambiente.
Accanto al banco c’era la porticina bassa che portava nel retro del locale dove l’usuraio teneva la cassaforte. Avanzò perplesso e bussò un paio di volte con decisione, chiamò e richiamò ancora, ma non ebbe risposta. Sempre più deluso, Mighele rifletteva sulla stranezza della situazione: Baghino non poteva essersi allontanato lasciando la bottega incustodita, col rischio che un ladruncolo entrasse di soppiatto e gli rubasse la merce. Afferrò la maniglia e provò ad abbassarla: la porta si aprì cigolando.

–Baghino!– gridò –siete qui?

La stanzetta era al buio. Inciampò su qualcosa di grosso riverso nel pavimento e riuscì a malapena a tenersi in piedi afferrandosi all’anta della porticina.

–Ma cos’è?– sbottò preoccupato.

Un colpo violento gli tagliò la nuca, procurandogli un acuto dolore, vacillò come un ubriaco scuotendo le braccia nell’aria alla ricerca di un appoggio, ma non trovò nulla e cadde in avanti privo di sensi.
Quanto restò così svenuto? Non poteva dirlo: gli sembrò pochi istanti perché si sentì scrollare da una mano robusta e scortese che lo costringeva a recuperare la lucidità e ad aprire gli occhi.

–Alzati, avanti!– gridò una voce roca –Muoviti furfante, sei in arresto!

–Che cosa succede?– balbettò con la gola indolenzita dal cocente dolore sul collo mentre tentava d’uscire faticosamente dalla nebbia che gli pervadeva il cervello.

–Hai capito delinquente? Alzati! O ti farò alzare a calci!

Mighele si rizzò a sedere sugli avambracci, strattonato subito per un braccio da quel brutale individuo e, come sollevò gli occhi, davanti alla porticina, scorse un uomo che sorreggeva la lampada a olio: era un tipo snello con baffi neri a punta e con la divisa da poliziotto. Si girò a sbirciare l’energumeno vicino a sé, con un gemito, a causa della ferita alla nuca: non riuscì a vederlo in faccia ma anche quello aveva la divisa da poliziotto.
Poi fissò l’oggetto in cui era inciampato e lentamente con orrore si rese conto della situazione: sotto le sue gambe giaceva, bocconi, il corpo di un uomo. Rabbrividì vedendo la chiazza di sangue che inzuppava il giustacuore sulla schiena.
Non ne scorgeva il volto ma credette di riconoscerlo: era Antonio Baghino.
Il poliziotto spietato continuò a strattonarlo finché non ottenne di farlo sollevare in piedi e subito gli torse le braccia piegandogliele all’indietro e con gesto veloce gli incatenò i polsi.

–Cosa fate? Perché mi state mettendo questi ferri? Io non ho niente a che fare con questa storia!

–Zitto!– sbottò l’agente e gli mollò un calcio sul polpaccio, strappandogli un lamento.

–È morto?– chiese il poliziotto con i baffi, quello presso la porta.

–Respira ancora, mi sembra.

–Vi dico che non centro nulla!– gridò Mighele –Avevo un appuntamento con lui e sono sopraggiunto or ora. Non capite? Qualcuno mi ha dato una botta in testa!

Nessuno dei due gli diede retta.

–Bisogna chiamare un medico– proseguì il poliziotto con i baffi inchinandosi presso il ferito e cercando di rovesciare il corpo e metterlo supino.

–Chi troviamo a quest’ora? Lo mettiamo sul cavallo, e lo trasportiamo ... E intanto conduciamo questo furfante in carcere.

–No, no … così finiamo di ammazzarlo. Vado io a cercare il medico … tu aspettami qua, manderò qualcuno a darti una mano.

Mighele, vista l’inutilità dei suoi strilli, poiché nessuno dei due gendarmi manifestava l’intenzione d’ascoltarlo, tentò di divincolarsi e di scappare.

–Lasciatemi andare! Lasciatemi andare! Sono innocente!– gridò –Cosa fate? Sono innocente! Dio mio! Aiutami!

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