Capitolo 4 La strega

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Don Giulio respirò faticosamente l’aria pesante che aleggiava nel corridoio mentre si preparava al terzo incontro, il più difficile, quello con la pazza, la donna che lo aveva pugnalato sulla spalla.

Quella donna lo metteva a disagio con i suoi occhi d’inchiostro e ci aveva riflettuto parecchio, prima di prendere nei suoi riguardi una decisione, cioè quella di regalarle un’ultima opportunità di salvezza.
Era stata una decisione sofferta.
Sapeva che Anzela sperava che lui evitasse alla pazza la pena capitale e che quella ragazza, Maria, aveva bisogno, finché non si fosse rimessa, dell’aiuto della megera per i bambini.
Tuttavia non era certo di poter attuare ciò che si era proposto, perché non sapeva come la pazza avrebbe preso in considerazione la sua offerta.
Il sottotenente Boi aprì la cella.

–Ho saputo dell’accaduto, eccellenza– disse –vi invito a stare a una certa distanza. L’abbiamo legata al muro con una catena, ma è meglio non avvicinarsi troppo.

–Com’è andata la cura dimagrante?– domandò il principe con un sogghigno.
Boi ridacchiò.

–Credo che le abbia tolto un bel po’ di grilli dalla testa– rispose –ma è sempre una tigre, sia prudente, eccellenza.

–Non correrò rischi inutili.

Don Giulio s’infilò nell’apertura della porta e si fermò impettito nei pressi della soglia, cercando di abituare gli occhi alla luce fioca della stanza.
La panca non c’era più e la cella pareva ancora più spoglia; forse l’avevano strappata via per fissar meglio al muro la corta catena a cui legare la recalcitrante detenuta.

La donna stava per terra con le gambe distese nel ruvido pavimento della cella, ricoperte per pudore dalla lunga gonna nera plissettata; il polso destro era stretto dal massiccio bracciale in ferro dal quale pendeva la grossa catena. Il viso era emaciato e stanco, la sommità della testa poggiata sul muro e gli occhi semichiusi.
Il sottotenente lo raggiunse all’interno e sbirciò anch’egli la donna.

–Tu!– gridò –il giudice Ravaneda vuole parlare con te!

Lena alzò il viso e piantò gli occhi tondi addosso al principe ma non si mosse, si limitò a fissarlo con aria truce.
Con un cenno don Giulio sollecitò l’ufficiale a lasciarlo solo e appena questi fu uscito, ritenendo innocua la prigioniera, si avvicinò, ma non troppo.

–Mi riconosci?– domandò mentre osservava la donna che pareva stordita e priva di forze. Il respiro era lento, ma lungo e pesante, anche lo sguardo era fiacco, ma seguiva il suo nemico in ogni piccolo movimento, come un gatto in agguato che fissa la preda.
Il giudice ripeté:

–Mi riconosci?

Lena parve svegliarsi raddrizzando il mento e sgranando i foschi occhi neri, taglienti come la punta di un pugnale.

–Che cosa vuoi maledetto?– sbottò –sì … ti riconosco assassino! Sei venuto a controllare se fossi ancora in vita, è così? Ebbene lo sono! Forse non è destino ch’io muoia prima d’aver vendicato mio figlio!

Don Giulio s’accigliò e si ritirò indietro, seccato che la strega, sebbene avesse mangiato ben poco in quella settimana, non avesse dismesso la sua arroganza.

–È tutto inutile– pensò –non posso tentare di salvare questa donna. È ben decisa a farmi la pelle.

E mentre rifletteva d’andarsene, Lena provò a raddrizzarsi in piedi, forse per orgoglio, per mostrarsi ancora indomita e determinata, ma non ci riuscì, poiché lo sforzo risultò superiore alle sue energie residue; ricadde su un fianco malamente lanciando un gemito che pareva il verso d’un animale ferito.
Ciò invogliò don Giulio a voltarsi e osservarla di nuovo; fu così che scorse il vestito strappato sulle spalle e un filo sanguigno che segnava la carne del braccio.

Il Patto DiabolicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora