Capitolo 11 La macabra scoperta

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Quando Anzela si precipitò sulle scale per fermare la carrozza del giudice, il taverniere, che stava prestando servizio nella sala, e i militari, che erano disposti in gruppo attorno a due tavoli accostati, intenti nel fare colazione, con curiosità le gettarono gli occhi addosso; più di un soldato bisbigliò un apprezzamento, ma subito furono tacitati dall’intervento energico del caporale, che, preoccupato per la presenza del capitano Cerrati, temeva che questi intervenisse per richiamarli aspramente.
Non c’erano altri avventori data l’ora precoce.
Intimidita per la presenza dei dragoni e dalle occhiate indiscrete, Anzela si arrestò a metà della rampa e rallentò la discesa; i suoi occhi sperduti si posarono sul nugolo di uomini in divisa e si fermarono con sollievo sulle pupille del giovane capitano che si era già alzato in piedi: fu un lungo istante, in cui ella sentì balzarle il cuore in gola, ma poi si riprese: l’urgenza di arrestare la carrozza per implorare il giudice Ravaneda superò l’imbarazzo, terminò in un volo gli ultimi gradini e si slanciò verso la porta.
Alfio si fece largo e le corse dietro.

–Signorina Anzela!– gridò –Aspettate! Signorina Anzela! Non uscite all'aperto!

Ella non l’ascoltò e scappò all’esterno.
Con occhi agitati cercò la carrozza e la individuò in lontananza, lungo la strada sterrata, ormai troppo distante per esser raggiunta, neppure con le grida; delusa e angustiata si rammaricò d’aver perduto l’occasione di parlare col giudice per quel ragazzo, ma poi riflettendo, cominciò a stupirsi della bizzarria di quella partenza improvvisa e a domandarsene la ragione. Perché il giudice Ravaneda era partito così di buon mattino? E perché Mighele non era stato svegliato dal capitano, perché potesse avvisarla?
E il ragazzo, … dov’era finito? Dov’era stato rinchiuso? E la madre? Quelle urla terribili, udite durante la notte, erano uscite dalla sua immaginazione o erano concrete?
Una strana inquietudine la colpì e la portò ad abbandonare la carrozza che rimpiccioliva nel fondo del sentiero e a esplorare con lo sguardo intorno a sé, con ansietà crescente, verso il recinto, dove rilevò Jaime che bruschinava i cavalli, e poi verso l’ingresso della locanda, dove l’ufficiale che l’aveva seguita si era arrestato. Come ne incrociò lo sguardo, lo vide animarsi e, con passi veloci, avanzare verso di lei. Aveva sul viso un’espressione preoccupata.
Anzela s’imbronciò. S’accorse d’esser furiosa con lui perché l’aveva persuasa a rimandare il colloquio con il giudice e sospettava che avesse voluto impedirle d’incontrarlo. Per questo, dopo aver sollevato il mento con alterigia, con gesto impulsivo, con cui si auspicava di rendergli evidente la sua collera per l’inganno subito, gli voltò la faccia e si trovò rivolta verso il lato sinistro della costruzione dove la vegetazione era abbondante e incolta.
Fu allora che lo vide.
Era a circa una ventina di passi, in mezzo ad una macchia di olivastri, dove i cespugli facevano quasi muro intorno ad una breve radura e s’intuiva che da una parte erano stati lacerati per aprire un percorso.
Un palo di legno grezzo pressappoco orizzontale s’insinuava tra gl’incavi dei rami di due alberi, distanziati tra loro forse di tre metri, o poco meno. Quel palo era sollevato dal suolo tanto quanto l’altezza media di due uomini messi l’uno sopra l’altro.
Era una forca rudimentale.
Anzela notò la sagoma che ciondolava da quel tronco, sospesa ad una grossa fune. Lo riconobbe: era il ragazzo arrestato la notte prima dai soldati piemontesi. Era stato giustiziato!

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