Capitolo 19. Come una tigre

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Erano molti anni che don Giulio Ravaneda evitava di mettere piede nelle prigioni della città regia e non per caso: era stata una decisione precisa, che egli aveva preso tanto tempo prima, studente, all’inizio della sua carriera politica, dopo aver accompagnato suo padre, il principe don Juan, uomo duro e crudele, nella visita di un condannato a morte. Quest’uomo era un povero diavolo, un impiegato del padre, che aveva lavorato a lungo per lui nei campi, il cui unico torto era d’averlo contestato con grande coraggio per l’ingiustizia d’un salario miserabile a fronte d’un lavoro giornaliero massacrante. Don Juan non tollerava d’esser osteggiato e men che meno da un individuo che disprezzava perché d’un livello sociale assai distante dal suo. In aggiunta quell’infelice s’era macchiato d’un delitto che al giudizio dell’inumano principe del foro era ancor più grave dell’oltraggio d’essersi lamentato, poiché aveva persuaso la maggioranza dei suoi lavoranti a iniziare la lotta per la rivendicazione del sacrosanto diritto d’un salario adeguato. Erano cominciati degli scioperi con grande perdita di profitto per il padrone, che aveva sostituito gli operai con altri disperati, c’erano stati dei tafferugli e anche dei morti, da una parte e dall’altra e l’incresciosa vicenda aveva causato l’intervento dei dragoni e del viceré in persona, intimo amico di don Juan.
Don Juan era un potente avvocato. Non era stato difficile per lui trovare falsi testimoni per accusare quell’uomo di omicidio e farlo condannare alla pena capitale, insieme alla maggior parte dei rivoltosi.
Nel suo smisurato orgoglio aveva voluto che suo figlio lo vedesse, mentre con sadico compiacimento  ribadiva in faccia al contadino i torti a suo parere commessi nei suoi riguardi e il trionfo della giustizia contro chi si ribella contro i padroni.

–Questa è la fine che fanno coloro che si oppongono ai Ravaneda. Guarda Giulio! Questo pezzente ingrato cui ho dato lavoro e denaro, che ho sfamato per anni, ha provocato sangue e morte. Ebbene domani finalmente riceverà la pena che ha meritato!

Don Juan aveva approfittato dell’occasione per richiamare il figlio affinché portasse a termine in fretta gli studi di giurisprudenza presso i Gesuiti per ottenere subito, grazie alla sua influenza, la carica ambita di giudice. Il potere: era l’unica cosa che contasse per suo padre dopo il denaro.

–Tu sei mio figlio, un Ravaneda! Imprimi bene nella mente ciò che ti dico: non permettere mai a nessuno come questo miserabile di mettere in dubbio la tua autorità.

Quella visita si era impressa nella mente di don Giulio in maniera indelebile: quell’uomo lacero, eppure dignitoso nell’aspetto, che fissava taciturno il suo arrogante genitore, l’oscurità di quel luogo e il tanfo nauseabondo che vi aleggiava. S’era riproposto di non mettervi più piede finché avesse potuto farne a meno.
Appena varcò il pesante portone, al seguito del capitano De Marco, lo investì un intenso e pungente odore d’escrementi e un immediato senso di nausea gli risalì fino in gola. L’attento ufficiale s’accorse subito, dal pallore del volto, del suo precario stato di salute, e, premuroso, domandò se fosse la ferita recente a procurargli fastidio. Don Giulio, per la debolezza mostrata, s’irritò con se stesso e, per non dare spiegazioni, preferì confermare i sospetti del capitano.
–Mi duole sì– disse –il medico tuttavia ritiene che guarirà presto, poiché non sembra esserci lesione nei legamenti, in caso contrario sarei rimasto impedito nell’alzare il braccio.

–Ah, sono molto lieto per voi, don Giulio.

Alcune lucerne disposte a tratti lungo il piancito illuminavano grigi muri di pietra interrotti da porte in legno robusto, mentre i due uomini attraversavano il lungo disimpegno. Piccole finestrelle con grata in ferro si aprivano nelle porte delle celle, così minuscole da dubitarsi che servissero a sufficienza per il ricambio dell’aria.
Il volto del giudice era teso. 

–Dove l’avete messa?– domandò.

–Qui vicino, eccellenza.

Il capitano si fermò davanti ad una delle porticine, infilò la chiave nella toppa della serratura, poi si rigirò verso il principe con l’aria di voler chiarire qualcosa.

Il Patto DiabolicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora