Capitolo 6 Il patto diabolico

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Intanto, mentre si svolgevano questi avvenimenti, il principe riceveva la visita del capitano De Marco e del marchese di Rivarolo, viceré di Sardegna, che trovatolo in buonissime condizioni di salute, si prodigarono entrambi nel sollecitarlo a presiedere egli stesso il processo contro il suo feritore.

–Caro don Giulio– spiegò il marchese compiaciuto di sé –Sappia che tra tutti quelli che hanno partecipato all’assalto del castello, per la gran parte son già presi e condannati a morte– fece una pausa, in attesa che il capitano confermasse le sue parole. Quello si limitò ad annuire con aria soddisfatta perciò il viceré proseguì:

–Sono mercenari, per la maggior parte, ma tra essi abbiamo identificato alcuni dei suoi contadini.

–Quanti … quanti contadini?

–Quattro– intervenne De Marco –Ma due di essi sono morti. Hanno tentato la fuga e i miei uomini li hanno uccisi.

–E il Ferrando?

–È uno dei due ancora vivi. Quello aspetta solo voi, caro principe. Non ho voluto privarvi del piacere di condannarlo voi stesso, appena vi sentirete in grado di ricominciare a lavorare– dichiarò il marchese di Rivarolo.

–Una settimana … – replicò don Giulio –vi chiedo ancora una settimana.

–Bene, concesso!

Chiacchierarono ancora del più e del meno, poi s’accorsero del volto affaticato dell’infermo e decisero di congedarsi facendo ritorno al palazzo l’uno, in caserma l’altro.
Quando finalmente i due visitatori lo lasciarono, don Giulio si ritrovò ancora incapace di star tranquillo.
Si era isolato nella sua stanza e un po’ restava sdraiato nel letto per riposare, in quanto ancora sentiva debolezza, un po’ passeggiava sopra i tappeti che ricoprivano gran parte dell’impiantito continuando a rivedere nella mente la giovane Anzela, con espressione smarrita, che gli annunciava d’andarsene, gli prometteva che avrebbe riflettuto sulla proposta di matrimonio e che in caso di risposta affermativa sarebbe ritornata.
E più il tempo scorreva, più egli s’angosciava. Sposarla! Come aveva potuto spingersi fino a proporre le nozze a quella ragazza che lo odiava? Che pazzia! Perché? Ah, riuscire a capirlo. Ariane si sarebbe infuriata, e a ragione.
Sposarla!
Guardò l’ora: mezzogiorno passato d’un quarto.

–Non torna, rifiuta. Come farà da sola? Forse ha qualcuno … non ha voluto dirmi nulla. Non torna, maledizione! Le ho offerto di liberare il fratello, pagare un debito esorbitante, pagare l’ipoteca! Che cosa avrei potuto offrirle ancora? Ah che ingrata!

Poi ragionò nuovamente sulla crudezza delle parole con cui l’aveva chiesta in moglie e ancora una volta si biasimò per la sua stupidità.
Sentì dei passi presso la porta e restò in ascolto. Forse Caterina, … forse Martina … i passi si allontanarono ed egli riprese il corso dei suoi pensieri.

–Accidenti a quella donna, che cosa mi ha fatto? Un maleficio? La mia mente non riesce a scacciarla, la sua assenza mi fa soffrire peggio d’un coltello che mi fruga nella carne! Bramo così tanto toccarla che il solo pensiero mi riempie di passione! E la mia immaginazione … vedo il suo viso spaurito … che teme la mia presenza come la peste … ah! Dio! Se tu esistessi, t’implorerei d’aiutarmi! Il ricordo di quell’amplesso mi riempie di vergogna! Maledizione! Non l’avessi mai incontrata!

–Signor Giulio?– Caterina chiamò dietro la porta. Dovette interpellarlo più volte perché il principe, assorto nei suoi pensieri, non l’udiva. Finalmente, tornato in sé, si degnò di rispondere e le concesse il permesso d’entrare.
La donna gli gettò un’occhiata di sbieco, cercando di comprendere cosa fosse accaduto, e nel frattempo s’inchinò e gli consegnò una lettera.

–È arrivato il messo dalla marchesa– disse –è qui fuori, signorino Giulio e aspetta la risposta.

Don Giulio accigliato aprì la missiva e lesse:

Amore mio,
So che state meglio e questo mi rende felice.
Cattivo! Mi avete tenuto troppo a lungo lontana da voi!
Mi mancate e molto.
Verrete a trovarmi questa sera?
Vi aspetto.
Sempre eternamente vostra
Ariane


Quella lettera appassionata, in un’altra occasione, lo avrebbe lusingato. Egli si sarebbe premurato di risponderle con tempestività e senza indugio l’avrebbe raggiunta nel suo palazzo. Invece, nella confusione che lo agitava, quel messaggio lo infastidì e più per dovere che per buona volontà prese una penna e scrisse:

Mia cara Ariane,
Temo di non essere ancora in grado di muovermi agevolmente.
Vi chiedo d’avere pazienza ancora per poco, poi tornerò da voi.
Nel frattempo siete libera di venirmi a trovare quando desiderate.
Giulio

Sigillò la lettera e l’affidò a Caterina perché la consegnasse al messaggero della marchesa. Poi si sporse dalla finestra e sbirciò all’esterno: l’uomo a cavallo, con giacca e tricorno accettò la missiva dalla governante, le fece un gesto di saluto e si allontanò al galoppo: era il servitore che aveva la mansione di cocchiere della marchesa d’Ancourt.
Si rivolse ancora al pendolo che troneggiava nel corridoio accanto alla porta della sua stanza e vide che stava per battere l’una.

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