Capitolo 4 Confessione

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Quando varcarono la soglia Anzela respirò di sollievo. Non avrebbe pensato che il ritornare al castello, dopo ciò che era successo poco prima, le sarebbe stato gradito.
Caterina l’avvolse prontamente in una calda coperta di lana e la trascinò nella solita stanza.

–Il mio baule!– esclamò la poveretta angosciata –Il baule con le mie cose! L’ho abbandonato nell’acqua. È tutto ciò che ho!

Caterina la rassicurò, garantendole che avrebbero provveduto a cercarlo appena la burrasca fosse cessata.
Poi chiuse la porta e cominciò subito a svestirla per liberarla dagli abiti sudici, e appena l’ebbe denudata la ripulì con un asciugamano dalla gran parte del fango viscido ch’aveva sul corpo e le sciolse i capelli con le dita. Infine la costrinse ad infilarsi in una larga tinozza dove già aveva versato dell’acqua calda. La gioia e il sollievo che provò la giovane Anzela non si può spiegare, un’ondata di gratitudine le colmò il cuore e le riversò lacrime sulle ciglia. Con dolci parole rivelò i teneri sentimenti che provava per quella donna buona e generosa, la ringraziò con calore e le promise che si sarebbe sdebitata in qualche modo.
Caterina sorrise.

–Non è a me che dovete riconoscenza, signorina– rispose –è stato il signor principe a riportarvi qui sana e salva.

–Oh lui!– esclamò Anzela –come posso ringraziarlo dopo le cose che m’ha detto!

–Ah!– Caterina drizzò le orecchie – io non riesco a credere che don Giulio v’abbia detto qualcosa di spiacevole.

–Ha scoperto tutto … sì, di Mighele … e di me. Sa che è mio fratello, ha minacciato di denunciarmi ai gendarmi … se non acconsentirò a divenire la sua amante.

–Oh Dio onnipotente!

Quelle parole confermarono in Caterina i suoi peggiori timori. S’imbarazzò, balbettò, presentendo che la ragazza l’accusasse d’averla tradita, si provò a mutar discorso, deplorando il tempo cattivo e la pioggia che non accennava a cessare, ma poiché Anzela insisteva nel raccontare la scena e le frasi sgradevoli rivoltele dal principe, nel timore che arrivasse a domandarsi in che modo don Giulio fosse venuto a conoscenza del segreto, rossa in viso dalla confusione, inventò una scappatoia e si defilò, oppressa dal senso di colpa. Il cuore le doleva. Si rimproverò, s’accusò d’esser stata ingenua, ragionò su come fare ammenda per ottenere il perdono della fanciulla e infine, incapace di lasciarla sola, fece rientro nella stanza. Tuttavia la sua solita favella sparì, sostituita da un incomprensibile quanto inconsueto silenzio. Mentre l’aiutava a pettinare i lunghi capelli, Anzela incuriosita la interpellò:

–Qualcosa non va, Caterina?

–Oh … no, signorina, proprio niente.

–Sei sicura? Devi dirmi qualcosa?

Nell’intento di Anzela non vi era, in quelle parole, nessuno scopo nascosto, ma la governante, annientata dal rimorso, ci vide un chiaro richiamo alla sua colpa e, con l’animo affranto, tentò di scagionarsi:

–Oh signorina! Signorina, io non volevo … non avrei mai detto nulla, mai! Ma son stata costretta … insomma, ho creduto … Il signor principe era così irritato con voi! Ed io temevo che non vi aiutasse, non come avrebbe dovuto … così gliel’ho detto! Oh povera me! Che cosa ho fatto! Pensavo di far bene … e invece!

Anzela per un attimo non comprese il filo del discorso, ma poi la mente riordinò le cose e l’intreccio fu chiaro.

–Sei stata tu! Non l’avrei creduto …

–Io non volevo … oh signorina, non volevo, oh, come sono addolorata! …

L’espressione del volto dell’infelice governante era così palesemente afflitta che Anzela ne ebbe pietà. S’affrettò a rassicurarla che non le prestava alcun rancore e che era convinta delle sue buone intenzioni, insisté a lungo finché non s’avvide che la buona donna ne rimaneva consolata. Infatti, Caterina  riprese il suo buon umore e presto l’episodio fu dimenticato. Intanto bussarono alla porta ed entrò Martina portando affannata il borsone che Anzela aveva abbandonato sulla strada; ella riferì che il padrone aveva mandato un uomo a recuperarlo e poi le aveva ordinato di ripulirlo dalla fanghiglia incrostata. Essa si dilungò nelle scuse per non aver potuto svolgere appieno il suo incarico, nonostante l’impegno profuso, poiché il cuoio era rimasto indelebilmente macchiato, ma il contenuto, assicurò, s’era un po' bagnato ma non rovinato. Anzela lo verificò all’istante tirando fuori uno dei suoi vestiti più belli e indossandolo con soddisfazione.
Dopo che la giovane ospite si dichiarò soddisfatta del lavoro ed ebbe espresso in abbondanza la sua riconoscenza, Martina la informò che il principe l’aspettava per il pranzo. Anzela declinò l’invito, adducendo come scusante la grande spossatezza.
Il giudice Ravaneda ne restò deluso, ma consentì a Caterina di servirla in camera e la fanciulla mangiò, anche se con scarso appetito. La convocazione si ripeté per la cena e così anche il diniego.
Don Giulio era furioso.
Sapeva che la mattina successiva ella se ne sarebbe andata per sempre ed egli non voleva. Non comprendeva perché desiderasse trattenerla a tutti i costi al castello dal momento che ella lo scansava come la peste, e continuava a ripetere a se stesso che era meglio ch’ella se ne andasse, che non poteva accettare d’esser trattato così da una donna, lui che di donne ne aveva intorno a frotte.

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