Capitolo 1 Decisioni difficili

12 5 0
                                    

Anzela sollevò la camiciola bianca tenendola per la sommità delle maniche in modo che pendesse davanti a sé, la scosse e la guardò: quelle macchie di sangue lavate con insistenza non erano scomparse, restavano dei piccoli aloni rosa incancellabili, memoria di quella drammatica serata in cui ella aveva perduto per sempre la sua verginità. La distese sul letto, vi piegò le maniche sopra, poi la ripiegò in due parti nel senso della lunghezza, e infine la ripose sopra gli altri indumenti, nel baule di cuoio, pigiandola all’interno per far spazio e riuscire a serrare le cinghie. Il momento che tanto aveva temuto era arrivato. Il principe aveva recuperato la salute ed ella non aveva più ragione di trattenersi al castello, anche s’era atterrita all’idea d’abbandonarlo.

Non che provasse per quell’uomo minor timore del principio, … anzi.

Tuttavia, la frequentazione obbligata dovuta al ferimento aveva avuto delle conseguenze, ch’ella, in coscienza, non poteva negare. Quell’abbandonarsi riottoso dell’uomo a ciò ch’ella gli comandava, quel mitigarsi dell’arroganza del viso e dei modi, fino a tramutarsi a volte, ella avrebbe giurato, quasi in espressione premurosa; il rispetto dell’impegno preso e la sollecitudine dimostrata verso il fratello avevano originato nell’animo della fanciulla sentimenti di gratitudine e affetto. Sì, c’era stato in quell’uomo un cambiamento, un mutamento profondo; e chi reputare artefice di quella grazia, se non l’Onnipotente, ch’ella con ardente fiducia riteneva in grado di convertire i cuori più spietati?

–Ah, Gesù, se fossi stata più meritevole! Forse avrei ottenuto da Voi, in virtù del cambiamento di quest’uomo, d’alleviare la pena di questi ricordi … questi terribili ricordi che mi angosciano!

Pareva, infatti, che nonostante la giovinetta, con rinnovati impulsi del cuore, con pensieri ispirati a benevolenza, s’impegnasse nel tentativo di cancellare il passato, per la convinzione che don Ravaneda si fosse ravveduto, ella constatava desolata come non le riuscisse in alcun modo d’annullare la memoria della subita violenza, né ad attenuare il sacro terrore che l’invadeva ogni qualvolta egli tentava d’accostarsi. Quella ferita, quel marchio infamante impresso sul suo corpo, appariva insanabile.

No, non era il giudice il motivo per cui ella avrebbe desiderato trattenersi al castello. La realtà era che la poverina non possedeva più nulla, né casa, né denaro, né prospettive. 

Dove andare? Lo zio Piero? L’aveva rinnegata, per lui, ella era come morta. Alfio? Egli non aveva fatto ritorno in Sardegna e forse non sarebbe tornato mai più. Lui indubbiamente, ella pensava, sarebbe accorso subito in suo aiuto; ma come avrebbe reagito se avesse conosciuto tutta la verità? L’avrebbe disprezzata? Quest’idea era così dolorosa che si sforzava d’ignorarla. Come avrebbe trovato il coraggio di raccontare al capitano d’aver accettato la proposta indecente del principe Ravaneda per salvare il fratello? Questi e altri angosciosi pensieri si erano alternati nella sua mente, per sconsigliarla dal voler lasciare troppo presto quel luogo non piacevole ma sicuro.

Aveva riflettuto a lungo e pregato, nella speranza che Dio le mostrasse una soluzione o inviasse qualche nuovo misterioso personaggio per soccorrerla. Ma l’aiuto divino pareva indugiare fino a quel giorno in cui lei si trovava in procinto di lasciare il castello.

Una sola cosa le era chiara: voleva stare vicina a Mighele. Sapeva che presto egli sarebbe stato trasferito in un altro luogo, che ancora le era sconosciuto, forse molto lontano, dove avrebbe espiato la pena, ed era decisa a seguirlo, a qualunque costo.

Dopo il pronunciamento della sentenza, il giudice l’aveva pregata di trattenersi ancora qualche giorno finché egli non fosse stato del tutto sicuro sulla sua salute ed ella aveva accolto con sollievo tale invito poiché le dava l’opportunità di riflettere con calma sul da farsi. Aveva ponderato ora un’ipotesi, ora l’altra, mentre al passare del tempo aumentava l’angoscia sul futuro che l’attendeva e infine era giunta a una decisione, l’unica che le arrecava sollievo e speranza: avrebbe domandato aiuto al caporale Carlo Testa. Alfio credeva in quell’uomo e gliel’aveva affidata, perciò non dubitava che quel soldato grande e gentile l’avrebbe soccorsa. La sua idea era semplice: domandargli una piccola somma di denaro in prestito e un suggerimento per rintracciare un alloggio; in seguito, una volta trovato un lavoro, gli avrebbe restituito ogni cosa.

Il Patto DiabolicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora