Capitolo 11 - "Lack"

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Conto i secondi, i minuti, le ore

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Conto i secondi, i minuti, le ore. Il tempo passa, non presta attenzione, non ha scadenza.
Mia madre è in piedi, non mi guarda, quasi mai. Tiene le mani occupate in altri doveri, per acquistare un'energia in più.

"A casa non ci sei mai." Mi confessa.

"Non esagerare." Picchietto la penna sopra il blocco di fogli che tengo sotto gli occhi, aspettando che l'inchiostro scivoli insieme a me.
Non risponde, non serve. Costringere le parole è uno spreco di tempo, lo è sempre stato.

"Disegni ancora?" Mi rivolge uno sguardo veloce. Fa girare per un'ultima volta il cucchiaio nella scodella, osservando se l'impasto creato è della giusta consistenza.

"A volte." Scarabocchio il foglio, pensando totalmente ad altro. Ogni tratto racconta un pezzo di vita,  quella più vissuta, la meno sentita. Mia madre lo ha capito forse col tempo, che le linee raccontano, che vogliono essere lette.

"Potresti fare un quadro per il salotto." Mi suggerisce. Io ci penso.

Le pareti sono troppo  bianche per i suoi gusti, i ricordi non li vuole vedere. Tappezzerebbe i muri di viaggi, di racconti, di storie senza un inizio né una fine.
Le piace pensare che l'amore sia immortale, che le storie lo siano.

Mio padre non ci ha mai creduto. Paragonava l'amore alla fatica, a qualcosa che dovevi mantenere, che dovevi tenere vivo per forza. Somigliava  ad un'altalena, secondo lui. Quella dove mi sedevo quando gli altri non avevano voglia di darti amore.

"Potremmo fare un altro figlio." Gli aveva detto  mia madre un giorno, nella loro stanza, un po' troppo buia per tenere a bada le frenesie. Era una proposta sconvolgente, per mio padre, per me. Ma mia madre la trovava giusta, perché forse lo era davvero.

Lui non parlava, in quei momenti. Si toglieva le scarpe da lavoro e si infilava nel letto come sempre, perché lì si sentiva sicuro, protetto.

"Che ne pensi?" Aveva continuato a dire mia madre. Lui, preso dagli acciacchi, forse sintomo della giovane età che se ne andava, o forse per via del lavoro, sbadigliò, rimandando.
Mia madre gli credeva, la salute prima di tutto. Si avvicinava a lui con timore, accarezzandolo piano, come si fa con qualcosa che non conosci, che hai paura di toccare e scoprire.

Immaginava di avere un'altra vita nel corpo, che si muoveva come le onde del mare, che spingeva per farsi sentire e dondolare.

Pensava che un altro bambino avrebbe potuto aiutarli, che non avrebbero sentito il bisogno di avere altro, che questo sarebbe bastato  per entrambi. Io non bastavo, per tenerli in piedi.

"Non mangi?" Indica  i biscotti e il bicchiere di latte. Mi passa un tovagliolo, ed io rabbrividisco, ripensando al giorno prima.

"Sì, ora mangio." Le dico, avvicinandomi maggiormente con la sedia al tavolo. Lei guarda la frutta che ha nel piatto, la smuove con la forchetta e la conta, contando anche i dispiaceri.
Le mancanze le senti, le vedi nascere. Ti ritrovi ad accudirle per farle crescere bene, con la giusta assenza.

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