37 - Nash Keller - That laugh

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Tornare nel mio appartamento non è stata una buona idea. Accendo la luce e per la prima volta da quando mi sono trasferito mi disturba la provvisorietà di tutto quello che mi circonda. In salotto me ne rimango al buio, le luci di Philadelphia, seppure psichedeliche, mi fanno compagnia illuminando una delle camicie bianche che uso per lavorare buttata malamente sulla poltrona di fronte a me.

Ho ancora fame, stasera non abbiamo mangiato un cazzo alla fine. Ma non ho voglia nemmeno di farmi un panino, invece stappo una birra che mi lascia in bocca un saporaccio amaro. Mi dirigo al lavandino del bagno con l'intento di sciacquarmi la bocca ma i miei occhi saettano sul pavimento.

Gesù.

Cox sdraiata, nuda, lei dappertutto e soprattutto io, io che la fotto in una posizione schifosamente dolce che non mi dispiace per nulla. Il missionario.

Mi passo una mano sulla fronte.

L'ho scopata nel modo che mi piace di meno e ho goduto lo stesso, anzi, contrariamente a come sono abitutato, ho goduto e basta, non sono riuscito a fermarmi in tempo, ero imperdonabilmente preso da lei.

Il verso che fa quando il piacere è troppo intenso per lei, poi, ecco, quello è un vero tormento, sembra quasi che provi fastidio, che ti implori di smettere ma poi si contorce sotto di te ed è ovvio che quello che desidera davvero è solo che tu continui, che faccia più forte fino a... e quando si è messa sopra...

Fantastico, basta solo il pensiero ad eccitarmi di nuovo.

Tento di cancellare almeno il ricordo delle sue labbra socchiuse, fallisco. Fallisco talmente che invece inizio ad immagine  labbra che fanno ben altro.

Perché sono stato così coglione da volerla incastrare in tutto questo? Perché?

Ripenso al discorso che mi ha fatto, alla sua infanzia difficile e alla figura paterna perennemente assente. Voleva farmi pena? Che intenzioni aveva? Voleva farmi capire che su di lei ho dei preconcetti?

Si, ha ragione, ce li ho. Lei non ne sa un cazzo di cosa significhi essere abbandonati a sé stessi. È solo una principessina indignata di non aver avuto abbastanza.

Ma tra aver avuto meno di quanto ci si aspettasse e niente, bhé c'è proprio una differenza enorme. Non lo sa cosa significa vedere tuo fratello, l'unica persona con cui tu abbia un legame, innaturalmente immobile, bianco e gonfio come un pupazzo pieno d'ovatta, no, non ha idea di cosa significhi vedere coi propri occhi che non c'è più nessuno a cui importi di te nei paraggi.

Nat però lo sa cosa significa, Nat ha sempre capito.

Nat è l'unica cosa che mi resta.

Se non altro questo genere di pensieri mi hanno tolto qualunque schiribizzo e il sangue se n'è tornato al punto di partenza.

Vado in cucina e stappo un'altra birra, la bevo davanti all'enorme finestra del soggiorno, la mano libera dalla lattina accarezza il vetro come vorrei fare con la faccia di Earn.

Non credo di essermi mai sentito tanto confuso in vita mia.

Il sapore non migliora, è amaro come poco fa, ma va bene, è quello che voglio, che le cose belle siano amare, è l'unico modo per non diventarne dipendenti.

Mi viene addirittura in mente un pensiero assurdo, infantile, una cazzata che mi farebbe venire voglia solo di sbattere questa testa dura contro il vetro per vedere chi ha la meglio.

Tiro fuori il rassicurante telefono con tastiera fuori moda, tocco i tasti in rilievo, questi piccoli tasti neri che ci sono, che non danno l'idea aleatoria dei nuovi aggeggi touch, che si sentono bene sotto i polpastrelli. Mi piacciono le cose che sembrano vecchie, mi rassicurano, mi danno la fallace idea che una volta il mondo girasse bene, che tutto funzionasse davvero.

Once Upon Three TimesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora