XXXIX. - Città fantasma

376 56 23
                                    

Le vacanze di Natale passarono in fretta e non fu facile trascorrerle con la mia famiglia senza interferenze.

Dopo la conferenza stampa in cui avevo affrontato una stanza gremita di giornalisti senza staccare gli occhi dal foglio davanti a me, pronunciando quelle poche parole tutte d'un fiato e sparendo dietro la porta subito dopo, ero rimasta lontana dai riflettori per un po'.

Avevo fatto ammenda pubblicamente e non potevo sentirmi peggio di così.

Non riuscivo ad accettare gli sguardi indignati di persone che non mi conoscevano, ma che erano pronte a giudicarmi, le domande invadenti dei miei compagni di classe, le notizie false che occupavano le pagine di gossip, ma soprattutto i commenti superficiali della gente, il loro odio verso di me mentre si convincevano che fossi una ragazzina arrogante.

Alcuni credevano che fosse tutto preparato, altri che senza rimorsi mi stessi già consolando in una meta paradisiaca. Tutti credevano di sapere come fosse andata.

A volte leggevo dei commenti così disgustosi da sentire immediatamente le guance rigate dalle lacrime.

Cercavo di smettere di cercare il mio nome in rete per non impazzire, ma non ci riuscivo. Per quanto ci avessi provato, la tentazione di sapere cosa la gente diceva di me era troppo forte.

Quando stavo troppo male cercavo i gruppi di fan o gli articoli e commenti fuori dal coro, ma era una consolazione solo a metà.

Non riuscivo ad accettare l'idea che tutto questo stesse accadendo per qualcosa che non avevo fatto e che dovessi anche chiedere perdono a qualcuno per questo.

Ognuno si ergeva a paladino della giustizia, ognuno giudicava e si improvvisava psicologo per capire cosa avesse portato quella ragazza di successo ad un gesto del genere.

La mia famiglia cercava di starmi vicino come aveva sempre fatto, ma nei loro occhi leggevo l'imbarazzo e la stanchezza nel dover evitare giornalisti in borghese e sguardi curiosi.

Il gruppo A aveva toccato anche loro nel profondo e ora cominciavo ad accorgermene sul serio.

Il nervosismo alleggiava in casa e oltre a soffrire mi sentivo colpevole per gli equilibri che in casa stavano iniziando a vacillare da qualche tempo.

Ogni volta che riuscivo a distrarmi, nel momento in cui riuscivo a parlare di altro, ecco che il panico tornava e il pensiero di ciò che mi era successo tornava a martellarmi.

Non era importante quanto cercassi di evitarlo, il video incriminato riappariva davanti ai miei occhi, analizzato secondo per secondo dagli opinionisti. Non potevo fare altro che accettare passivamente tutto questo.

In quei giorni limitai il più possibile i contatti con il mondo. Se fino a pochi giorni prima ero entusiasta di riuscire a passare un po' di tempo libero con i miei amici, durante quella settimana infernale l'ultima cosa che desideravo era varcare la soglia di casa, anche solo per andare agli allenamenti.

Alla fine avevo rinunciato anche a questo: avevo bisogno di stare lontana dal gruppo A e dalla Fenice per un po'.

Jade ci aveva provato: alcune riviste si erano schierate dalla mia parte e si facevano la guerra su chi dovesse raccontare la mia storia per prima, con tanto di intervista esclusiva.

La mia agente ci aveva rinunciato presto: dopo l'ultima crisi non aveva insistito e aveva detto a Cresci che le mie condizioni di salute non erano tali da permettere un mio ritorno sul campo. Lui non l'aveva presa bene, ma alla fine l'aveva accettato.

Sapevo che nascondermi non avrebbe fatto altro che ingigantire il problema, non sarei riuscita a scappare per sempre, ma non potevo fare altrimenti.

La Fenice 1. Tennis. Misteri. Bugie.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora