LXI. - Smarrimento

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Spinsi con forza il cancello ed entrai nel labirinto, iniziando a calpestare i sassolini bianchi del vialetto. Tutto taceva. Non ebbi molto tempo per guardare quel panorama desolato e antico, perché ero già in ritardo e Riccardo sarebbe arrivato a momenti. 

Mi rimboccai le maniche e iniziai a correre per l'unica strada presente, il sentiero bianco che si addentrava nella fitta vegetazione. Sembrava di essere un altro mondo. 

Il sole filtrava lentamente, la sua luce fioca riempiva l'aria, lustrava la polvere vibrante nell'aria e le ragnatele traslucide; i suoi raggi penetravano nei cespugli di more dalle foglie appuntite che costeggiavano il sentiero, subito dopo la ripida discesa.

Il labirinto continuava a farmi paura, anche se era separato dal resto della foresta con alte recinzioni. Il paesaggio spariva a qualche metro dal viale, inghiottito dalla boscaglia scura, e questo bastava per mettermi in uno stato di inquieta tranquillità. 

Ogni volta che ci mettevo piede, quel posto si rivelava proprio ciò di cui avevo bisogno. Ascoltando solo i miei passi sulle pietre dure e il mio respiro, potevo abbandonarmi ai miei pensieri solitari. Allo stesso tempo i suoi alti alberi mi facevano sentire piccola e insignificante.

Bastarono pochi passi, la mia mente cominciò a rilassarsi, i problemi iniziarono a scomparire. Continuai a correre, sempre più forte, sempre più sicura, per la strada che ormai conoscevo a memoria. Respiravo a pieni polmoni e rilasciavo aria pura. 

La foresta di Verdiana era stata costruita dall'uomo, ma erano ormai passati più di cent'anni e nulla la distingueva da una qualsiasi foresta naturale sparsa nel mondo. Anzi, negli ultimi vent'anni era cresciuta a dismisura, fino ad includere due laghi artificiali, le maestose ville che prima sorgevano in collina e un parco naturale. 

Molti degli ulivi che una volta coprivano quelle terre erano spariti, ma ancora, all'interno della foresta, si potevano scorgere esemplari da migliaia di anni. Proseguii per la mia strada, fino a raggiungere i tre cipressi, al centro della piccola radura spoglia in cui facevo stretching quando ancora ero nei B1. 

L'aria era fresca e umida, l'odore di legname era intenso. Proseguii per il viale fino a raggiungere il bivio. Svoltai e cominciai la salita, sentendo le mie gambe reagire e lavorare intensamente. Avevo ormai corso per un paio di chilometri, quando decisi di voltarmi e tornare.

Quando mi girai notai qualcosa di diverso. Alberi, alberi enormi che coprivano la visuale dalla quale ero arrivata. Più lontano, a destra, alti cespugli che non avevo mai visto, e un avvallamento che copriva il resto del paesaggio. Il suono delle cornacchie risuonò, dandomi i brividi.

Feci qualche passo più avanti, alla disperata ricerca della strada maestra. Come avevo fatto a non accorgermi che il sentiero bianco era finito, e che non ero sulla strada giusta?

- Beatrice, stai calma. Non può essere così difficile tornare indietro – iniziai a parlare tra me e me, e non era di certo un buon segno. 

Proseguii a piedi, con calma, aguzzando la vista in cerca di un dettaglio che mi ricordasse qualcosa. Sapevo sarebbe stato difficile: ogni volta che correvo non riuscivo a focalizzarmi che su me stessa. Correre i faceva entrare in una sorta di trance, e non mi faceva mai focalizzare su ciò che avevo intorno. 

Ecco perché dovevo smetterla di correre in luoghi che non conoscevo. Evidentemente a Roma non avevo imparato la lezione.

Presi lo smart già a corto di speranze. La coltre di alberi era troppo fitta e il segnale spariva continuamente.

- Maledetto progresso tecnologico inutile – mi lamentai ad alta voce, quasi sperando nella fortuna che tempo prima mi aveva portato sulla strada di Ivan Buljat. Ma questa volta Ivan non c'era, e il labirinto era enorme.

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