LX. - Lei non è più qui

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La sera successiva fu quella in cui accusai meno il freddo di Verdiana, il suo vento proveniente da Nord e il peso di dover sopportare Orlando, dato che avevamo finito di scontare la nostra punizione. 

Febbraio era ormai finito, e se adesso mi guardavo indietro, erano ormai passati quattro lunghi mesi di allenamenti estenuanti e tornei. Non potevo fare a meno di sorridere e sistemare i campi nel migliore dei modi, quasi per celebrare la fine dell'incubo. Orlando sembrava calmo, ma dopo l'ultima litigata furiosa non avevamo più parlato. Ci avevo ormai fatto l'abitudine.

Quando finalmente arrivammo ai campi B Jorge era già passato da un pezzo e l'orologio segnava le dieci e mezza. Lavorare per conto nostro senza comunicare ci rendeva incredibilmente lenti. Una volta terminato il mio lavoro mi sedetti sulla panchina del campo 19 e aspettai che Orlando finisse di asciugarlo. 

Presi lo smart e iniziai a scambiare messaggi con le mie amiche, mentre sentivo i passi furtivi di Orlando che si aggiravano nella metà campo in cui mi trovavo.

- Dovresti informarti nei riguardi di una persona prima di parlare –

La sua voce mi spaventò. Non mi ero accorta che era con il cesto sulla sinistra, davanti a me. Iniziai a guardarlo interrogativa. Aveva un grosso giubbotto con il cappuccio che gli copriva interamente la fronte e in parte gli occhi, i pantaloni della tuta della Fenice e le Nike bianche e blu che risaltavano rispetto alla tenuta scura. Stava strizzando una pallina con la mano sinistra.

Si sedette accanto a me, senza guardarmi. Non riuscivo più a vedere la sua faccia, con quel cappuccio nero addosso. Vedevo solo sporgere il naso di tanto in tanto, e le spalle alzarsi ed abbassarsi ritmicamente ad ogni suo respiro.

- Non puoi permettere di parlare della mia famiglia e dei miei genitori, di giudicare la mia educazione, visto che non sai nulla -

- Ho capito, ma non puoi aspettarti che qualcuno ti tratti decentemente se tu sei il primo ad attaccare sempre tutti -

- Non ho più un padre. Forse è per questo che faccio così. -

Sentii un groppo in gola immediatamente. Improvvisamente, senza alcun preavviso, Orlando aveva mostrato il suo segreto. Non sapevo cosa dire, ma soprattutto non riuscivo a crederci.

- Mi dispiace. Io posso solo immaginare il tuo dolore... Non lo sapevo. –

- Ma che hai capito? – si girò a guardarmi per un istante, forzando una risata di scherno che non riuscì molto bene - Non l'ho mai avuto. O meglio... Mio padre è vivo e vegeto, solo che se n'è andato quando ero piccolo. -

- Non cambia la situazione. Avevi ragione, non dovevo attaccarti così. Ma ero davvero stanca, e, credimi, Orlando, tu mi fai innervosire sul serio. È impossibile parlare con te: attacchi e insulti sempre tutti -

- Ora lo stiamo facendo - rispose, riprendendo la sua posizione iniziale.

- Magari è troppo tardi. Magari anche io mi sono stancata, e non ho più voglia di correrti dietro. Ci hai mai pensato? - 

- Ah sì? - Orlando si alzò di scatto, il suo tono era di sfida adesso. Si girò.

- Aspetta - 

La mia voce tremava, in quel silenzio opprimente.

- Intendo solo dire che non possiamo tutti stare qui ad aspettare il momento in cui finalmente la pianti di insultare e decidi di parlare normalmente con noi -

- Perché parli al plurale? Ci sei solo tu qui. Non vedo nessun altro -

- Forse ci sono solo io adesso, ma non sono la sola che cerca di capire cosa ti succede -

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