Verso una nuova meta ✔

464 167 56
                                    

Era un pomeriggio così caldo che anche il sole stava sudando.

Io ero in centro, di fronte alla Piazza principale e una chiesa si allungava davanti a me.

Avevo sempre pensato che gli angeli esistessero. Che uno di loro sarebbe venuto a prendermi per farmi volare. Per farmi sentire libera e viva. Per farmi provare la sensazione di un paio d'ali addosso. Ma non era mai successo.

Sulla chiesa era raffigurata una splendida statua: un angelo che cingeva tra le braccia la vita di una donna, senz'ali, per cui una mortale. L'angelo gli stava sfiorando il collo, fino ad arrivare alla clavivola. Dove vi appoggiava le labbra vellutate e rosse. Carnose e rassicuranti, come un porto dopo una tempesta.
Allargando un po' di più gli occhi potevo vederli muoversi. Potevo vedere loro che spiccavano il volo.
Il volto di lei coperto da una felicità inspiegabile, troppo forte per essere descritta.
Il volto di lui pieno d'amore e passione nei confronti di lei.
Due stelle smarrite che ritornavano verso casa, il cielo.

Vedendo questa immagine iniziai a chiedermi se avrei mai più rivisto quegli occhi verdi, dalle venature viola. Così luminosi, grandi, passionali, profondi, immensi.

Due lucciole immerse nel buio, che cercavano solo il loro posto. Sembravano persi, ma non spenti. Accesi, ma non luccicanti. Felici, ma non innamorati. E magari sarei riuscita a farli innamorare di me...

Mi ritrovai in Viale Trinità dei Monti dove una voluminosa fontana occupava gran parte del Viale. Questa era ovale, rialzata su un piedistallo. Così brillante che sembrava di cristallo. Dove al centro padroneggiava una palla di cannone.

Mi ricordavo di avere studiato la storia di questo monumento in terza media.

La leggenda diceva che, Cristina di Svezia un giorno continuava ad andare avanti indietro, senza sapere cosa fare. E decise di andare a caccia. Ma siccome non poteva andarci da sola, inviò un invito a un importante signore in villa de Medici. Ma per fare prima gli inviò una palla di cannone.
In futuro poi, questa palla venne recuperata ed esposta in questa fontana.

Le macchine passavano per la strada e il sole le faceva brillare come rubini. Tutte piccoline e imperfette.

L'acqua che luccicava nella fontana, era verde smeraldo, a causa del mosaico verde e blu all'interno.

Il rubinetto faceva sfavillare l'acqua a una velocità flemmatica e il vento provocava delle onde pigre sulla superficie.

Guardando quel dolce ondeggiare, iniziai a pensare a quando era stata l'ultima volta che avevo visto il mare.

Ero ancora in India e andavo sempre a Goa, quello più vicino a dove vivevo.

Il mare era sempre ceruleo, mentre le spiagge color caffè, erano ornate da palme che torreggiavano sulla distesa di praline di sabbia.

Io nuotavo sempre, nonostante non mi fosse mai piaciuta la ginnastica, avevo sempre amato nuotare. Librarmi nel profondo. Respirando a malapena, liberandomi da ogni pensiero.

Mi allenavo ogni giorno e fin da piccola, ero la più veloce del mio villaggio. Riuscivo sempre a tener testa alle barche che fluttuavano come piume sul dorso terso dell'acqua.

Lì avevo anche il mio migliore amico, Daniel. L'unico che mi aveva sempre capita e anche se aveva solo un anno in più di me, era riuscito a crescermi.

Se ero qui era solo grazie a lui. Non lo vedevo solo da una settimana ma sentivo già la sua inesorabile mancanza.

Quando i pensieri riaffiorarono in superficie, come diamanti costuditi, nel piccolo baule del mio cervello. Mi allontanai da quella piccola reliquia che mi faceva tornare la nostalgia del mio quartiere.

Ripresi a camminare, con passo apatico. Il sole si faceva sempre più cocente e mi venne voglia di togliermi i jeans e la t-shirt che indossavo ormai da una settimana. Tuffandomi in un mare limpido, salato e splendente.

Invece continuai a camminare e dopo all'incirca un'ora arrivai alla nuova meta.

Alla chiesa di santa Maria in Vallicella.

Davanti alla quale sorgeva una statua di un uomo, alto, di bronzo, a cavallo. Il quale stava trottando con il volto contratto, come se non fosse sicuro di quel che stesse facendo.

E questo ancora una volta, mi fece venire in mente Daniel: alto, biondo con delle sfumature ramate. Occhi verdi, con tantissime venature viola. Labbra rosse, che in un battito di ciglia diventavano pallide. Un corpo scolpito: il torace delineato dai muscoli che, quando nuotava si contraevano, e quando si riposava sul litorale si allentavano. Tra il collo e l'incavo, che si formava quando inarcava la schiena, aveva una macchia rossa che poteva sembrare un livido se fosse stato color porpora. Che poteva sembrare un tatuaggio se non fosse che lui li odiava. Erano, invece, due paia d'ali, piccole ma splendenti, enormi, piumose, rilucenti, e forti.
Lo guardavo sempre in quel punto. Perché speravo che un giorno potessi ritrovarmi avvolta fra loro.
Inoltre sulle scapole aveva due cicatrici. Piccole, ma abbastanza evidenti, che non si cicatrizzavano mai.

Io lo amavo, con ogni fibra di me stessa. Ma lui mi vedeva come una sorella e questo non poteva che far rimanere le cose così com'erano.

Se anche lui mi avesse amata, oggi non sarei stata qui. Avrei imparato e saputo amare e non mi sarebbe servito ritrovare la mia famiglia.

Quando entrai, la luce del sole filtrava dalle finestre rettangolari, ai lati della chiesa, che riflettevano tanti triangolini colorati sul pavimento marmoreo.

Al centro un prete stava celebrando la messa e una miriade di persone erano strette intorno a lui, in cerca di comprendere le sue parole in latino, che io capivo anche se con qualche incertezza.

Più avanti si stendeva l'altare ricoperto di merli e seta viola. Il candelabro che si trovava riverso sulla superficie era spento. E il cestino per l'elemosina vuoto.

Al di là dei gradini, fissato al muro, c'era il quadro di Rubens che tanto volevo vedere. Un quadro motorizzato che, a causa del tempo iniziò a logorarsi e così a Rubens gli venne in mente di applicare una cornice motorizzata. In modo che il quadro potesse salire o scendere, per poterlo nascondere, quando la chiesa non era piena di occhi invadenti.

Il quadro era stupendo. Raffigurava tanti angeli coperti solo da un lieve straccio candido, avvolto intorno alla vita. Intenti a sostenere un altro piccolo quadro, dove all'interno vi era la Madonna che teneva in braccio il suo bambino vestito di rosso.

Quando uscii dall'immensa chiesa... Neve.
La neve ricopriva ogni centimetro di Roma.
Si posava volteggiando in piccole volute sulla città addormentata. Poiché quelli che mi parvero minuti, erano state invece ore. Passate in una chiesa, così singolare.
Centimetro dopo centimetro. Fiocco dopo fiocco. Tutto era sepolto dalla folta coltre candida e pesante dei cristalli: ogni prato, ogni strada, ogni oggetto, era ricoperto da una lieve patina di ghiaccio. E io non potevo rimanere lì.

Mi inoltrai in una stradina dove in fondo trovai un hotel. Mi ci infilai senza ulteriore indugio, senza guardare nemmeno l'insegna.

IT'S OKAY, I'M DIFFERENT (IN REVISIONE)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora