Una notte,un'anima inquieta,la mia ✔

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Mentre correvo, sotto il cielo che imbruniva sopra di me, iniziai a conoscere una sensazione nuova... Stavo solo aspettando di tornare in camera mia chiudere la porta e buttarmi sul letto.
Quella sensazione di disperazione, volevo solo qualcuno che stesse lontano dal mio unico rifugio.

Ero stanca di tutto, stanca di niente. Lo sapevo che sarei dovuta essere forte, per me stessa. Perché nessuno avrebbe potuto aggiustarmi. Ma ero stanca, per una volta volevo solo che fosse facile, che fossi stata salvata mentre cadevo sull'orlo di un precipizio. Ma mi illudevo, sognavo, perché sapevo che non sarebbe mai successo. Anche se stavo ancora aspettando, ancora desiderando, stavo ancora tenendo duro, combattendo.

Quando ormai giunsi alla soglia dell'edificio marrone e nero, le lacrime iniziarono a rigarmi il viso.

Iniziai a sentirmi avvampare, le guance e le tempie diventarono bollenti.

La vista mi si appannò e continuai ad andare avanti a tentoni.

La gola mi si chiuse. Eppure non riuscivo a smettere di piangere, ma allo stesso tempo non riuscivo nemmeno a respirare.

La gola e ogni fibra di me stessa bruciava, come se un fuoco si fosse appena acceso.

Riuscii ad arrivare al bagno e lì finalmente mi lavai la faccia, riprendendo conoscenza delle cose che avevo intorno, che fino a poco fa mi sembravano sbiadite e incolore.

Poi mi buttai sul letto e chiusi gli occhi.

Dopo pochi minuti i miei occhi sbarrati illuminavano la stanza al buio, non riuscivo a richiuderli.

Per cui scesi le scale che, questa volta non parvero così scoscese e mi avviai verso la piscina.

L'aria fredda mi pungeva il viso.

Quando vidi la piscina, rimasi attonita. Era più grande e più profonda di quanto credessi.

Mi catapultai in acqua, grazie al piccolo trampolino e appena la toccai, mi sentii viva.

Tuffandomi provocai delle piccole onde, e mentre boccheggiavo sott'acqua iniziai a pensare, di nuovo. Ma almeno stavolta, se avessi iniziato a piangere non l'avrei sentito. Non mi avrebbero assalito i sensi di colpa e per una volta non avrei sentito proprio niente, esattamente quello che volevo.

Ecco, potevo paragonarmi alla matematica: ero complicata, frutto di pregiudizi, odiata da tanti, capita da pochi, amata raramente. Eppure da piccola non ero così, ero un semplice "1+1", ma nel corso degli anni l'ignoranza mi aveva cambiata, mi aveva fatta diventare un'equazione lunghissima e se prima bastava un piccolo sforzo per volermi bene, ora non più. Bisognava passare ore ed ore a parlarmi, a leggermi per riuscire solamente a scorcere una piccola parte di com'ero fatta veramente e i pochi fortunati che riuscivano a capirmi, non avevano il tempo di godersi la vittoria, che io cambiavo e diventavo più difficile e fredda.

Eppure qualcosa avevo imparato: avevo imparato che, a volte l'amore era tutto, mentre altre volte non bastava. Che, le lacrime a un certo punto, non si potevano trattenere più.
Avevo imparato che, le persone scappavano, quando gli faceva più comodo. Che, le promesse erano parole, la maggior parte delle volte, solo e soltanto parole. Avevo imparato a urlare in silenzio. A tendere le mani anche quando non mi era stato chiesto. A non aspettarmi più niente.
Avevo imparato che, io non ero facile da amare, perché per me l'amore, non era semplice e comune amore. Avevo capito che, dovevo lasciare andare chi voleva rimanere. Che, se mi fermavo un attimo, se smettevo di lottare anche solo per un secondo, nessuno mi sarebbe venuto a riprendere. Avevo capito che, la vita a volte, l'amore te lo faceva pagare. Tutto alla fine, quando faceva più male... Piangevo.

Mi morsi il labbro inferiore e tirai su con il naso, chiusi gli occhi e provai a trattenere le lacrime. Ma sgorgarono come un fiume in piena e mi lasciai andare finché non toccai il fondo.

Quando sentii che l'ossigeno mi mancava, mi sollevai e mi diedi una spinta con i piedi, riafforando in superficie, annaspando, sedendomi sul bordo marmoreo.

Alzai la testa e iniziai a contemplare il cielo, con i suoi misteri e le sue stelle. E mi meravigliai di quelle milioni, anzi no, miliardi di palline luminose che danzavano nell'oscurità, senza aver paura. Per poi trasformarsi in supernove, esplodendo, emanando una scia argentea tutt'intorno, allungandosi fino a me. Sembrava una scala per accedere al paradiso. Una luce da illuminare il mondo intero, immerso in un profondo e immenso black-out.

Le stelle.
Così piccole ma così profonde.
Così lontane eppure così vicine, da toccarle con un dito, se solo avessi voluto.
Così stupende, uniche eppure così sole, senza una famiglia, un posto sicuro, caldo, eterno, chiamato casa.
Stupendamente abbaglianti, eppure così buie al tempo stesso.
Trasparenti da vederne il mio riflesso, così nere da non vederci nemmeno l'ombra.
Mi era sempre piaciuto pensare che le stelle fossero nate dall'amore della Luna e del Sole.

Nuotai ancora e ancora, finché non sentii i muscoli delle braccia tirare. I tendini delle gambe lacerarsi. Il viso ruvido. La pelle grinzosa e bianca. Solo a quel punto uscii, afferrai un accappatoio di flanella bianco, che sembrava una grossa ala, soffice, vellutata, un faro nella notte per i marinai, una luce per quando si aveva paura del buio.
Il MIO Daniel, perché anche io avevo bisogno di essere amata.

Ancora avvolta nella flanella, salii le scale e svoltai a destra. Il lungo corridoio di pietra, pareva gelato sotto i miei piedi nudi, e i muri al tocco con la mia pelle, parevano cristalli che, s'infrangeveno provocandomi graffi profondi.

Nella hall, davanti al portiere, seduto su un divanetto di pelle nera, consunto dalle migliaia di sedute che aveva dovuto subire e un po' grinzoso al centro, c'era un ragazzo: il suo viso era il marmo di Carrara, scolpito dalle mani del più abile degli artisti. Gli occhi glaciali, pericolosi, cristallini e limpidi come il ghiaccio, avrebbero paralizzato chiunque all'istante, messi ancora più in risalto dalla sua carnagione caramello, come costantemente baciata dal sole. L'espressione fiera, orgogliosa, sicura di sé, contornata da spettinati e morbidi capelli biondi, più chiari della luce del sole alle tre del pomeriggio.

Improvvisamente, durante lo struggente silenzio che ci circondava, le sue rosee e carnose labbra si aprirono in un affascinante sorriso, lasciandomi senza fiato, illuminandomi.
Ero sicura che lui non fosse umano, gli umani non possedevano quei sorrisi.

Uscii in giardino spaventata, provando un nuovo sentimento.
Sentivo lo stomaco chiudersi come in un groviglio di rovi, la gola serrarsi, gli occhi sbarrarsi... Era paura.

Il ragazzo uscì e si avvicinò a me, sfiorandomi la pelle pallida del braccio. Mi salii un brivido su tutto il corpo e dopo pochi istanti, nel punto in cui mi aveva sfiorata, era comparsa una macchia rossa a forma d'ali.
Non era sangue, non era un livido... Era una specie di voglia. Sì era proprio una voglia, come quella che aveva il MIO Daniel.

Quando rialzai gli occhi, il ragazzo era sparito.

IT'S OKAY, I'M DIFFERENT (IN REVISIONE)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora