La società/2

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12th floor, 219 N Wells St., Loop, Chicago.

16.35 p.m.

Per assistere al processo dell’imputato già condannato, la sala riunioni brulicava di spettatori accorsi da tutti gli uffici del piano per prendersi la rivincita dopo mesi di vessazioni subite.

Su una poltrona diversa dalle altre sedeva il presidente della società, un signore anziano e giallognolo che ascoltò i capi di imputazione con lo sguardo inchiodato su George.

“Ho ricevuto una sequela di lamentele sulla condotta del signor Shepherd”, esordì Kingston rivolgendosi al suo superiore. “Ha costretto i dipendenti a trattenersi oltre l’orario, pretendeva che fossero reperibili nei week end, ha vietato l’assembramento di più di tre persone nei corridoi e l’uso dei cellulari privati nelle ore lavorative, ha installato di sua spontanea iniziativa un programma che ha bloccato l’accesso ai social network dai computer dell’azienda.”

“Sai che in una società normale queste rimostranze mi sarebbero valse una promozione?” osservò George.

“Hai cacciato due ragazzi perché si erano dipinti una bandiera arcobaleno sulla guancia, un’altra stagista è stata obbligata a tornare a casa per cambiarsi la gonna che a tuo parere non era abbastanza morigerata.”

“Mio il team, mie le regole sul decoro.”

“Hai chiamato balena uno dei programmatori.”

“Sono pronto a risarcire tutti i cetacei che si siano sentiti insultati dall’essere paragonati a quel grassone truccato.”

“Sei un razzista omofobo.”

“E’ vero, ma gli avrei portato rispetto se non lo avessi scoperto a sputare nel mio caffè.” “Ne avrei portato anche a te se non fossi un manager inaffidabile che con la sua gestione lassista sta distruggendo una società ricca di potenziale.” “Un amministratore non può rinviare un appuntamento con un cliente per scaldare la pappa al figlio e non può nemmeno permettersi di correre a casa alle cinque rendendosi irreperibile fino al giorno successivo.” “Quando a Chicago è pomeriggio, a Singapore è l’alba. Chiediamo al mercato asiatico di smettere di funzionare perché la sera vuoi giocare a fare la moglie?”

“Fai attenzione a quello che dici”.

“Non hai la minima idea di come vada gestita un’attività di questo tipo e il parco giochi di amici e amanti che hai allestito rispecchia la tua incompetenza. Hai assunto donne gravide e madri single, segretarie sciatte e sovrappeso, hai promosso a responsabile dei rapporti con i clienti un uomo a cui sudano anche gli occhi.” “Peggio ancora, i tuoi amici fannulloni arrivano tardi quattro mattine su cinque, sbadigliano durante le riunioni e non sono mai preparati”. “Naturalmente sono apatici solo se si tratta di faticare, quando ho votato contro la proposta di istituire un asilo nido per i loro figli sono stato inondato di minacce.” “Potrei sapere quanto ne ha guadagnato in termini di produttività l’azienda con l’apertura di quella giungla di pargoli urlanti in fondo al corridoio?”

“I dipendenti che hanno figli lavorano con più serenità.”

“Lavorano? Giovedì ho chiesto di incontrare uno dei tuoi project manager e mi hanno risposto che era al nido perché la figlia aveva vomitato.” “Ci sono bambini che si intrufolano negli uffici importunando i clienti, neonati che strillano disturbando le riunioni. Ti avevo trovato dei clienti arabi che hai fatto accogliere da una segretaria che stava allattando.” L’orologio di George emise un flebile beep. “Sono le cinque, io qui ho finito.”

“Resta, George”. Il presidente della società parlò facendo un gesto circolare con una mano. “Voi altri, sparite.”

(segue)

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