49. La mia nuova dimora

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La notizia più bella che abbia mai sentito in vita mia: Ha aperto gli occhi.
Aveva mantenuto la promessa cioè  combattere fino alla fine a denti stretti.
Essere contento era un eufemismo. Ero dannatamente euforico. Solo dopo aver riattaccato il telefonino e dopo aver  metabolizzato la splendida notizia, prendemmo la mia macchina per tornare al Good Samaritan Hospital.
Questa volta innestai immediatamente la quinta e sfrecciai per tutta l'autostrada incurante delle altre macchine. Se prima avevo corso il più lontano possibile dall'ospedale per allontanarmi dai pensieri negativi e dalle preoccupazioni che ne derivavano, ora avevo più fretta di ritornarci. Avevo una voglia matta di rivederlo, di abbracciarlo, di annusare i suoi capelli e perdermi nel loro odore. Guardarmi riflesso nei suoi occhi e ridere per essere scampato ad una bell'impresa. Timmy era un combattente nato e presto avremmo risolto altre piccole questioni se piccole era il termine più opportuno da usare. La prima fra tutto era la sua famiglia. Ad avvertirci era stata la sorella e sicuro avremmo trovato anche i genitori. Questa volta sarebbe stato clemente il padre di TImmy? Oppure mi avrebbe impedito di vederlo? A quel pensiero mi si gelarono le mani e i piedi, perché in fondo sapevo che era così.
La seconda questione invece riguardava più me che lui. Come avrei dovuto affrontare il tradimento? Avevo preso in considerazione l'idea di lasciarmi tutto alle spalle senza avere a che fare con quella specie di donna.
Il divorzio era una questione burocratica lunga e tormentosa. Per non parlare dell'affidamento, del sussidio da pagare  per i miei figli. No era decisamente l'opposto che desideravo per i piccoli Harper e Foster. Se da una parte sono arrabbiato per quello che è successo, dall'altra invece ne ero quasi grato per aver trovato modo di svagarsi nei mesi in cui ero assente.Mi aveva facilitato le cose. Ora mi era stata data una nuova opportunità, un'opportunità per ricominciare a vivere assieme all'unica persona che valeva la pena avere affianco, amare, coccolare baciare, farci l'amore: Timmy, il piccolo angelo.
Mentre guidavo, Sors si lasciò andare ad una grido di gioia. Il nostro Timmy era vivo e solo questo importava.
"Me lo faranno vedere?" le domandai.
"Certo che si" disse poco convinta.
Lo sapeva anche lei che le probabilità di un incontro erano bassissime se non esistenti, quando nella stessa stanza ci sarebbe stato il padre.
La madre Nicole ancora non l'avevo capito se mi odiava per ciò che era successo o no. Mi era apparsa più come un burattino manovrato. Il marito si muoveva e lei seguiva gli stessi movimenti progettati e sincroni. Ecco perché prima in ospedale, non ero riuscito ad avvicinarmi a lei.
"Io voglio vederlo. Ma ho paura che...."
"Armie troveremo un modo vedrai. Ora l'importante è che arriviamo".
Detto ciò accellerai il più possibile superando altre macchine in fila, semafori rossi e suonate di clacson.
Sto arrivando amore mio, pensai sorridendo. Era finalmente felice, dopotutto tutto quello che era successo. Il resto sarebbe stato inevitabilmente impresso per sempre nella mia mente, scolpito perfettamente per farmi ricordare ciò che non ero, un uomo perfetto. Ma per Timmy sarei cambiato, sarei diventato più protettivo, più partecipe nella sua vita e questa volta , la mia dose personale di felicità non me la sarei fatta sfuggire per niente al mondo. Sorrido di nuovo, sorrido per la mia vita che mi stava aspettando.
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"Sia ringraziato il cielo, mon chere. Ci hai fatto preoccupare tanto." Disse mia madre in lacrime e abbracciandomi così forte da farmi sussultare per il dolore. Se ne accorse per il mio rantolo.
"Pardon moi" disse staccandosi lentamente.
Erano arrivati da una mezz'ora dopo che l'infermiera April  li aveva gentilmente chiamati. Ero contento di vederli nonostante ciò che avevano fatto. Ma non so se per via di quello strano limbo in cui mi sono trovato o per via dell'incidente, che ho capito di doverli perdonare. Mia madre e mia sorella stavano piangendo dal momento in cui erano arrivate. Mio padre invece era rimasto fermo all'ingresso ad osservarmi. Conoscevo quello sguardo. Quando ero piccolo e combinavo qualcosa di grosso, quello sguardo freddo e vuoto voleva significare solo una cosa: ero nei guai e presto avrei avuto la solita ramanzina. Ero felice in parte, perché quello sguardo non mi era mai mancato. So doveva voleva andare a parare papà ma da me avrebbe trovato solo che un silenzio di tomba. Se non gli andava bene la mia personalità, il mio essere, ciò che ero, perché allora si era preso il disturbo di venire? Perché non poteva lasciare Pauline e mia madre, venire da sole.
"Perché sei qui?" gli chiesi schietto e con lo stesso sguardo intimidatorio. Su questo aspetto  ho ripreso da lui. L'impronta degli occhi  verdi era la stessa che avevo io in quel momento, severa, sicura e determinata. Lo stesso smeraldo dei nostri occhi tuttavia aveva una differenza sostanziale. Mio padre quando era derterminato nulla gli avrebbe fatto cambiare il suo volto glaciale e pietrifico. Il mio invece aveva un punto debole. Il punto debole sul quale stava puntando mio padre: la mia ossessione.
"Sono qui perché mio figlio si è risvegliato" disse con la stessa glacialità dei suoi occhi.
Non mi piaceva affatto quel suo modo di fare. Oltre che a studiarmi stava riflettendo sul da farsi.
"Pauline, Nicole potrei parlare con mio figlio un attimo"
"Mi raccomando signore non lo affatichiamo troppo. Altri 10 minuti e non di più." disse l'infermiera mulatta mentre mi cambiava la flebo e ne metteva una nuova.
"Non si preoccupi giusto il tempo di parlare da padre a figlio." Le rispose senza spostare lo sguardo da me. Cosa stai cercando di fare papà? Pensai senza confessarlo.
L'infermiera mi guardò e bastò i suoi occhi castani a farmi capire ciò che voleva dirmi: in bocca a lupo.
Speravo con tutto me stesso, che quel lupo non fosse troppo affamato.
Pauline e mia madre uscirono subito dopo l'infermiera. L'aria era d'un tratto cambiata diventando più fredda e irrespirabile.
"Cosa c'è" gli dissi acido.
"Mi dispiace per quello che è successo. Di come ti abbia ridotto quel ragazzo."
Faceva sul serio? O era un modo per prendermi in giro?
"Ma sappi una cosa. Tutto ciò non sarebbe successo se non avessi incontrato quel cretino del tuo collega."
Bingo. Lo sapevo che voleva andare a parare proprio sull'argomento del mio orientamento.
"Vai al dunque" dissi arrabbiato.
"Io non voglio che mio figlio  frequenti un uomo, per giunta più grande di lui. Da quando hai conosciuto quell'Armie sei diventato un pappamolle. Ti sei lasciato fare il lavaggio del cervello. Ma stai tranquillo che non ti permetterò di ricadere in questo tranello"
Cosa cazzo stava dicendo? Stava completamente svalvolando.
"Cosa cazzo dici? Io posso fare quello che mi pare e piace. Non sono più un minorenne. Tu  non puoi venire qui a dirmi cosa fare e non fare."
"Oh si invece."
"E come? " gli chiesi beffeggiandomi delle sue convinzioni.
"Racconterò  ad Armie la verità di ciò che si cela dietro tutto l'accaduto"
"E tu come fai a saperlo?" L unica che poteva avergli raccontato tutto era mia sorella. Se così fosse, avevo perso una complice.
Quel sbalzo di umore non mi faceva per niente bene. Il monitor sulla  destra che registrava l'attività elettrica del mio cuore, iniziò ad emettere dei suoni. Il tracciato elettrocardiografico era diventato veloce e sempre più ristretto. Stava avendo un attacco di panico.
"Calmati" disse mio padre con il mio stesso tono.
"Calmarmi? Tu mi stai minacciando. Mi stai dicendo di lasciare perdere Armie? Ma cosa diavolo ha di così sbagliato e contorto il tuo cervello?" Gli tuonai contro fregandomene dei segnali del monitor affianco. Mio padre si avvicinò a tre centimetri dal mio viso e guardandomi severo mi disse:
"Non voglio avere un figlio gay. E tu non lo sarai. Da oggi non vedrai più il tuo patetico Armie."
Poteva scordarselo, niente mi avrebbe impedito di vederlo e di respirare la sua stessa aria. Mi sarei fatto in quattro pur di rivedere il suo ammiccante sorriso vampiresco.
"Non  sono più un bambino padre. Non puoi decidere tu come organizzare la mia vita." Gli strillai contro. Questa volta il monitor iniziò a lampeggiare e suonare più forte di prima. Anche il respiro tornò ad essere pesante e quasi iniziavo a far fatica ad inspirare.
Entrò l'infermiera April sicuramente richiamata dal sistema d'allarme del monitor.
"Cosa sta succedendo qui dentro?" Chiese rivolta più a mio padre che a me.
"Nulla che si debba preoccupare. Questioni familiari."
L'infermiera lo guardò torvo e con pazienza le disse che non era interessata assolutamente ai nostri battibecchi bensì al rumore del monitor.
"Ragazzino stai di nuovo respirando male. La tua frequenza è un pochino alta.Credo che devi riposarti"
Disse sottilineando con più voce le ultime parole per far capire a mio padre che non era molto desiderato in quella stanza.
"Ha perfettamente ragione. Può farlo uscire e per favore non mi faccia entrare più nessuno." dissi indancole mio padre.
"Sappi che non finisce qui la storia."
"Puoi starne certo perché questa storia finisce qui."
Senza ribattere uscì sbattendo la porta del box in cui ero ricoverato.
"Mi scusi" dissi all'infermiera lasciando le lacrime  scendere piano piano.
"Non ti preoccupare anch'io ci sono passata" rispose accarezzandomi una mano.
"In che senso?"
"Nel senso che anch'io come te ho dovuto combattere per la mia sessualità. Sono l'età di 10 anni che continuo a litigare con la mia famiglia. Loro pensano che sia la vergogna di casa. Per questo motivo me ne sono andata via per sempre."
"Benvenuta sulla stessa barca" disse sarcasticamente.
"Già. Ma fatti dire una cosa. Non lasciarti abbattere in quel modo, sii fiero di essere te stesso e non permettere a nessuno di rubarti la felicità, nemmeno dalla tua stessa famiglia. Lui come si chiama?" Mi chiese con tranquillità.
"Armie."
"Bene non fartelo sfuggire. Combatti per proteggere il tuo Armie "
"Lo farò."
Detto ciò se ne andò lasciandomi solo assieme al bip dell'elettrocardiografo.
Aveva ragione April, avrei dovuto stringere i denti sempre di più o altrimenti mio padre l'avrebbe avuta vinta. Mi aveva minacciato. Se non mi fossi allontanato da Armie, avrebbe trovato lui stesso un modo per farci allontanare: raccontare la verità che era al vertice di tutto. Ma non gliel'avrei permesso di compiere quel gesto così plateale e maligno. Sarei stato stato io stesso a raccontargli la verità una volta per tutte. Il primo passo per rendere quel noi più solido che mai, era senz'altro la condivisione della sincerità.
Mi lasciai cullare dal suono elettrico del mio battito verso un dolce sonno.

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"Siamo arrivati" dissi fermando la macchina al di fuori dell'entrata dell'ospedale.
Ci incamminammo di fretta lungo la stradina interna che portava al pronto soccorso. Solo poche ore prima ero lì e non sapevo come si fossero evolute le cose, pensando solo al peggio. E invece ora eccomi di nuovo qui più raggiante che mai, perché qualcuno o qualcosa dalla su aveva esaudito le imploranti preghiere.
"Non è che se corri non riusciremo a vederlo" disse scherzando Sors. Rallentai un pochino la mia andatura dato che una mia falcata equivalevano due delle sue.
Mi stava osservando.
"Che c'è" le chiese dandole un buffetto sulla spalla.
"Niente è che sei così solare. Se ti fossi visto prima...." lasciò cadere il discorso perché entrambi non volevamo per niente ricordare l'accaduto del giovedì sera.
Entrammo alla sala triage e Sors andò incontro alla stessa infermiera che ci aveva accolto poche ore prima.
"Salve. Non so se ricorda di noi. Ma poche ore fa abbiamo portato un nostro amico. Si chiama ....."
"Lo hanno spostato in traumatologia" disse prima che Sors finisse di parlare.
"Ehm dove?" Gli chiesi non sapendo come muovermi in quel labirinto blu.
"Seguite la linea rossa finché non vi troverete in un bivio. Girate a destra e vi troverete due ascensori. Ricordate di prendere il primo sulla sinistra e non il secondo altrimenti vi troverete nell'obitorio del pronto soccorso"
La ringrazziamo e con la stessa fretta di prima seguimmo l'insolita linea rossa sul pavimento. Dedussi che la sua utilità era indispensabile per guidare chiunque a rintracciare la sala emergenze. Prendemmo il primo ascensore e scendemmo all'unico piano. Di fronte a noi il cartello TRAUMATOLOGIA.
Entrammo nel lungo corridoio. Per nostra fortuna trovammo un'infermiera mulatta intenta ad aggiornare le cartelle cliniche. Speriamo che riesca s vederlo, pensai.
Non appena mi notò automaticamente sorrise come se ci conoscessimo già.
"Mi scusi per caso qui è stato ricoverato un ragazzo ventiduenne, capello corvini, occhi verdi. Si chiama Temotheé Chalamet" le chiesi mangiandomi le ultime parole per l'ansia.
"Tu devi essere Armie non è vero?" Disse ridendo. Come faceva a conoscere il mio nome?  Il padre aveva percaso parlato con i responsabili del reparto per cercare di fermarmi?
"Lo trovi nella stanza 216" disse indicandomi la strada.
Anche Saiorse ebbe la stessa reazione mia.
"No comment" disse alzando gli occhi al cielo.
La luce della stanza era spenta. Eccoli li fermo immobile mentre dormiva. Se non avessi saputo la verità, lo avrei scambiato per morto. Era troppo dolce quando dormiva, sembrava un bambino.
"Sta dormendo torniamo..." la zittii subito. So che stavo dormendo ma avevo voglia di toccarlo, di sapere che non era solo un'illusione. Andai avanti e appoggiai la mia mano sulla sua guancia morbida e calda. Quanto mi era mancato quel tocco leggero con la sua pelle, l'elettricità familiare era ancora più piacevole delle ultime volte.
Gli toccai le labbra,  il mento le orecchie lentamente assaporandomi quel momento unico e segreto.
L'avevo svegliato.
"Ma che...." dissi con la voce impastata dal sonno.
"Shhhh sono io" gli sussurrai all'orecchio. Per un momento non riuscì a capire chi avesse di fronte poi Sors gli agevolò la cosa accendendo la luce del letto.
"Armie. Oh Armie." Urlò.
"Timmy" si alzò velocemente e con una mano mi prese la camicia con forza, per avvicinarmi al suo viso. Con la stessa impazienza si portò all'altezza delle mie labbra avvinghiandosi in un bacio lento ma aggressivo. Era impaziente quanto me di rivedermi.
"Ti prego scusami per quello che è successo."
Lo zitti con un altro bacio poi staccandomi lo guardai piangendo e gli dissi:
" Dopo tutto quello che è successo tu ti devi scusare? Sei proprio un ragazzino."
"Sei proprio un ragazzino" replicò iniziando il suo solito gioco.
Ridemmo come due bambini, piangendo allo stesso istante. Potevamo aver affrontato tutto, ma niente ci avrebbe impedito di essere noi stessi felici e spensierati come non mai.
"Ti amo Oliver"
" Io ti amo di più Elio"
Ormai eravamo completamente immedesimati in quei due personaggi che un tempo avevamo preso parte e che solo ora ne portavamo ancora i panni.
"Ti prego non andartene. Resta devo parlarti." Mi chiese implorante aggrappandosi più forte alle mia braccia.
"Dove vuoi che vada senza te. E poi abbiamo tanto tempo per parlare. Non ho fretta di tornare a casa. Perché ormai non ne ho più una"
"Che vuol dire?"
"So tutto Timmy e -dissi tappandogli la bocca- ora non preoccupiamoci di questo. La mia vita è stata consegnata a te, solo a te e rimane tua."
Non avevo più un posto in cui andar a vivere. La mia casa  era stata distrutta dalle bugie,  da false illusioni e da un tradimento. Ora era Timmy la mia nuova dimora.

Tu sei il mio Oliver ed io sarò il tuo Elio - La Scoperta del CambiamentoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora