Trieste, 26 luglio 1999
Erano quasi le dieci, entro l'una dovevano essere in auto, Gisella avrebbe voluto lasciarli dormire, ma sapeva che tra una cosa e l'altra ci sarebbe voluto tutto il tempo.
Aveva bussato ma non aveva risposto nessuno, così aveva provato ad aprire, non era chiuso a chiave. Era entrata, la stanza aveva le tende aperte e la luce illuminava ogni angolo, ma i due ragazzi continuavano a dormire. Gisella si era fermata sulla porta e non aveva potuto resistere alla tentazione di osservarli indisturbata. Indossavano i boxer e il lenzuolo non li copriva quasi per nulla, i capelli color cuoio di Eric erano sparati in tutte le direzioni sul petto del figlio che, lo teneva stretto a sé, con entrambe le braccia e persino una gamba, quasi ad assicurasi che nessuno lo portasse via durante il sonno. Anche Eric era legato al corpo sotto il suo, con un braccio stringeva il torace e aveva una gamba intrecciata a quelle di Edoardo. La donna sorrise, erano bellissimi, con i visi sereni rivolti uno verso l'altro. Aveva capito che suo figlio era innamorato, lui stesso glielo aveva confidato, ma più delle parole le conferme le aveva avute osservando gli sguardi che si scambiavano quando pensavano che nessuno ci facesse caso, ora non aveva dubbi. Uscì piano senza svegliarli, prese la macchina fotografica e tornò indietro.
«Cosa devi fotografare?» Volle sapere il marito, lei sorrise e disse:
«cose che i genitori non dovrebbero vedere e sapere.»
«Non dovresti vederle e saperle e non contenta le fotografi?» Osservò Luigi, con fare interrogativo, sollevando un sopracciglio.
«Ormai li ho visti e, se non hanno cambiato posizione, li fotografo di sicuro. Sono così teneri, si vede che si amano, sarà dura per loro. Comunque, quando gli regalerò la foto mi perdoneranno!»
«Vengo con te» disse Luigi, scuotendo il capo, ma senza riuscire a trattenere un sorriso, ormai era incuriosito. Non era sicurissimo di voler vedere, quello dopo tutto era il suo bambino e continuava a ricordarlo il giorno in cui era nato, si era sentito così orgoglioso e allo stesso tempo timoroso, avrebbe dovuto proteggerlo. Ricordava anche la piccola sagoma sotto il lenzuolo dell'ospedale, dopo l'intervento, aveva solo sette anni e ne dimostrava cinque, era un follettino biondo il suo ometto e lui non era riuscito a proteggerlo, aveva fallito.
Si affacciò alla soglia e guardò la scena che Gisella, silenziosamente, fotografava da diverse angolazioni. Le tapparelle erano aperte, la luce entrava tranquilla e calda, ma erano così stanchi che non si accorgevano di nulla, si mossero solo per stringersi un po' di più. Sua moglie aveva ragione erano belli, si vedeva l'amore e non solo quello, ebbe la sgradevole sensazione che, di innocente, il suo bambino non avesse più molto, ma era comunque una bella scena. Improvvisamente si sentì di nuovo pieno di emozioni forti, era di nuovo impotente, quel giorno suo figlio avrebbe sofferto e lui non poteva proteggerlo. Forse, dopotutto, Gisella aveva ragione, quella foto sarebbe stata un ricordo. Uscirono e li lasciarono dormire fino alle dieci, poi la donna tornò a svegliarli dolcemente.
Quando aprirono gli occhi e videro la madre, entrambi fecero un balzo. Eric, si nascose sotto il lenzuolo e Edo, urlò:
«Mamma, che cavolo! Potevi bussare!»
«Fatto più volte, non vi svegliano nemmeno i cannoni, se lo scuotimento non avesse avuto effetto sarei passata alla secchiata d'acqua. Forza, in doccia, puzzate di non voglio sapere cosa e sudore, inoltre, la colazione è pronta... Ah, veloce la doccia, vi do mezz'ora, fatevela bastare!» La donna fece l'occhiolino e uscì ridacchiando.
I due ragazzi erano rossi come le fragole mature.
«Scusa, piccolo sono mortificato, non ricordavo di non aver chiuso a chiave ieri...»
STAI LEGGENDO
I Ragazzi della città del vento
ChickLitIl romanzo è una sorta di family dramma e di teen story, ambientato a Trieste a partire dal 1998. Si ricollega al mio primo romanzo "E l'inverno finirà" (in vendita in tutti gli store on-line). È un romanzo corale, in cui si narrano le vicende delle...