Milano, 19 novembre 1998
Angela e Veronica entrarono nel reparto e vennero fate accomodare in un corridoio, l'infermiera disse che l'avrebbero chiamata a momenti. Angela sperò si sbrigassero perché non c'erano sedie.
Dopo un quarto d'ora passata a camminare e a spostare il peso da un piede all'altro, Angela era stanca, non osava nemmeno immaginare come stesse Veronica, così la fece sedere sulle scale e si mise al suo fianco, anche se erano decisamente sporche.
Aspettarono ancora più di dieci minuti quando, finalmente, le fecero entrare in una stanza.
«D'Amico Veronica, sei tu giusto? Lei è tua madre? Solo un parente può assistere.» Disse il medico senza darle il tempo di rispondere e senza nemmeno guardarla in volto, ma leggendo una cartella.
Veronica entrò in panico, non voleva rimanere sola, ma Angela, con presenza di spirito, confermò di essere la mamma, in fin dei conti era la tutrice legale. Il dottore annuì e le fece accomodare.
Le fecero le solite domande a cui ormai sapeva rispondere anche da addormentata: malattie e interventi pregressi, allergie, intolleranze, uso di alcol e droghe, infine, eventuali terapie in corso.
Rispose a tutto.
Dopo aver scritto quanto diceva, la fecero accomodare nella stanza attigua, togliere la maglia e sedere sul letto. Il medico le raggiunse subito dopo.
Entrarono, se lo studio dove le aveva ricevute era squallido e un pochino sporco, questa stanza varcava i confini della realtà.
Il pavimento di linoleum blu, era rotto in alcun punti, ma la cosa peggiore era la polvere: ce n'era talmente tanta che faceva dei gomitolini e rotolava da un lato all'altro della stanza al minimo spostamento d'aria, a Veronica ricordavano le balle di spine nei film Western prima di uno scontro a fuoco. I muri in teoria erano bianchi, in pratica grigi e pieni di impronte non identificabili; persino i vetri erano polverosi. Gli unici arredi erano una brandina da campeggio con delle lenzuola pulite e dei cuscini, di fianco vi era un tavolino in ferro e da una parte tre sedie. Nient'altro.
Veronica fece una smorfia disgustata, ma si tolse il capottino e il maglione e rimase in reggiseno. Si sedette sul letto ad aspettare, mentre Angela si accomodò su una sedia. Poco dopo tornò il medico con un'infermiera.
La donna aveva un vassoio con delle siringhe, dei flaconcini di medicinale, qualche provetta, una bottiglia di disinfettante, delle garze sterili e dei guanti monouso. Ma la cosa che atterrì Veronica furono le siringhe, erano enormi, una aveva un ago normale, solo lungo, l'altra lo aveva, anche, decisamente spesso.
Voleva chiedere informazioni, ma il medico le ordinò:
«Voltati di schiena, con le gambe penzoloni e i piedi poggiati a terra, togli il reggiseno e mettiti questo sulla pancia. Piegati in avanti abbracciandolo.» Le spinse il cuscino da notte fra le braccia.
Veronica ubbidì, ma chiese:
«Che cosa sono quelle siringhe?E le fiale?»
«Non preoccupati, ti facciamo l'anestesia, la siringa più piccola è per quello. Con l'altra prendiamo il liquor tra la quarta e la quinta vertebra, per questo devi piegarti il più possibile in modo da stendere la schiena e creare spazio e ovviamente stai ferma o si può spezzare l'ago. Rilassati.»
Veronica odiava i medici che dicevano cose spaventose tipo: "si può spezzare l'ago", seguito da un invito a rilassarsi. Come si faceva?
Si tese come una corda di violino. Il dottore se ne accorse e la sgridò, poi chiese ad Angela e all'infermiera di tenerla ferma per sicurezza. Angela era titubante, allora il medico si affacciò e fece entrare un altro ragazzo in camice; Veronica non sapeva chi fosse. Il ragazzo salì sul letto a destra, l'infermiera la prese a sinistra e la immobilizzarono, schiacciandola con la pancia sul cuscino.
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I Ragazzi della città del vento
ChickLitIl romanzo è una sorta di family dramma e di teen story, ambientato a Trieste a partire dal 1998. Si ricollega al mio primo romanzo "E l'inverno finirà" (in vendita in tutti gli store on-line). È un romanzo corale, in cui si narrano le vicende delle...