Trentotto

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Il ricevimento al Quirinale non finisce troppo tardi, ma mentre Loi ci riporta a Palazzo Chigi io mi sento esausta come se avessi scalato il Kilimanjaro.
"È andata bene, no?", mi dice Giuseppe accarezzandomi una mano.
"Se per andare bene intendi che sono ancora viva, sì, è andata bene".
Come risposta mi bacia, questa volta un bacio lungo e piendo di desiderio. Quando ci stacchiamo mi guarda e mi dice: "Il tuo rossetto non si è smosso di un millimetro, incredibile".
"Perché tecnicamente non è un rossetto ma una tinta per labbra", gli dico.
Vedo formarsi nel suo viso l'espressione di panico che compare in ogni uomo quando si affronta l'argomento articoli di make up.
"Una roba che per toglierla ci vuole l'acqua ragia", gli spiego.
"Vedremo", mi sussurra in un orecchio.
Loi, impassibile, guarda la strada.

Arriviamo a palazzo e saliamo nell'appartamento presidenziale.
"Non ti ho detto che anche tu eri bellissimo, stasera, vestito da James Bond. Non ho fatto altro che guardarti e pensare fra me e me che eri mio e solo mio".
"Anche io ti guardavo da lontano e pensavo che eri bellissima e che eri mia e solo mia".
Inizio a sfilargli la giacca, poi gli sciolgo il papillon. "Ho sempre sognato di farlo", gli dico.
Lui si ferma e dice: "Non riesco a decidere se preferisco spogliarti io o guardarti mentre lo fai tu".
"Tu siediti", è la mia risposta.
Si siede, la camicia già un po' aperta.
Apro il bottone della mia giacca e la lascio scivolare sulle braccia, fino a terra. Poi apro la cerniera laterale del top, in modo da sfilare via anche quello con un solo gesto e rivelare la lingerie di pizzo blu notte, proveniente dalla stessa boutique del vestito.
Giuseppe si lecca le labbra e porta la mano verso il cavallo dei pantaloni.
Apro quindi la cerniera dei miei pantaloni che, essendo ampi, cadono a terra in un colpo solo, rivelando l'altro pezzo della mia biancheria. Come mi libero del tessuto arrotolato ai miei piedi, metto in bella mostra le scarpe, che da uomo qual è, prima non aveva notato.
"Non toglierti altro, e vieni qui", mi ordina con la voce arrochita dal desiderio.
Mi avvicino e mi siedo a cavalcioni su di lui, baciandolo e accarezzando la sua virilità attraverso la stoffa pregiata dell'abito da sera.
Ci spostiamo sul letto dove il resto degli indumenti, miei e suoi, vengono eliminati in un attimo, tranne le mie Jimmy Choo, che mi chiede di tenere addosso, e che mi fanno sentire la donna più sexy del mondo.
È una notte magica, di passione e promesse d'amore, dove sesso e cuore viaggiano all'unisono, in un equilibrio che ancora non sapevamo quanto potesse essere precario e fragile.

Dopo l'amore rimaniamo abbracciati, le dita a tracciare vicendevolmente pigri cerchi sul corpo dell'altro.
"Hai finito di sistemare le cose a casa tua?", mi chiede.
"Mh, sì e no. Perché?"
"Così, per sapere. Non mi racconti molto delle tue cose".
"Vabbé, non sono interessanti e tu hai altro a cui pensare".
"Ho altro a cui pensare quando non sono con te. Quando siamo insieme, penso a te e a ciò che ti riguarda. Vorrei che mi coinvolgessi di più".
"Va bene Brontolo, lo farò". Mi tiro su per dargli un bacio sulle labbra e poi mi riaccoccolo sul suo petto.
"Hai bisogno di aiuto, posso fare qualcosa, non è semplice organizzare un trasloco".
"No, tranquillo, anche perché non porto mobili, quelli li lascio perché ci va a vivere mio fratello. Te l'ho detto vero che ci va mio fratello?"
"Sì".
"Ci saranno tonnellate di libri, questo sì. Cose. Oggetti a cui non riesco a rinunciare".
"Le tue scarpe, suppongo".
"Oh, a molte di quelle alla fine rinuncerò sai? Certo non a tutte...". Prendo in mano le pump argento che giacciono ai piedi del letto.
"Ci sono altre cose a cui mi è più difficile rinunciare, ricordi di mio padre, ad esempio. O il divanetto semi sfondato di mia nonna".
"Non puoi portare almeno quello?"
"E dove? Ancora non ho trovato casa, e poi quel divano ha senso dov'è, a casa mia che prima era la casa di mia nonna. Dove è sempre stato. Con la parte sinistra più sfondata dell'altra, perché ci si è seduta lei per più di quarant'anni, e poi io per un'altra decina".
"Ecco, a proposito di casa, Eleonora". Si tira su a sedere sul letto. Io lo guardo incuriosita.
"Dimmi".
"Perché devi prenderti un'altra casa, perché non vieni a vivere con me?"
"Qui a Palazzo Chigi? Ma sei pazzo? Non ci penso neanche!"
"Ma non qui, a casa mia".
Lo guardo con un'aria dubbiosa.
"Eleonora, prima di diventare Presidente del Consiglio avevo una casa mia, no? E tra l'altro prima della pandemia qui ci stavo poco e niente, è da febbraio che mi ci sono trasferito e sinceramente non vedo l'ora di andarmene".
Lo guardo senza parlare.
"Qual è il problema?"
"Il problema è che non mi va di venire a casa tua".
"Ma perché, me lo vuoi spiegare? Non è la casa in cui vivevo con Valentina, se è quello che ti preoccupa. E Olivia ci sarà venuta due o tre volte di numero".
"Non è quello il problema, Giuseppe..."
"E spiegamelo allora che non lo sto proprio capendo".
"Beh, se non lo capisci da solo allora mi sa che abbiamo un problema ancora più grande".
Il tono della mia voce sta pericolosamente cambiando, oltre che aumentando di volume, e anche lui, di conseguenza, abbandona il suo fare conciliante.
Il favore delle tenebre, questa volta, non ci sta facendo bene.
"Eleonora, spiegami quale cazzo è il problema perché evidentemente sono limitato e non ci arrivo".
"Il cazzo di problema, Giuseppe, è che non mi va di fare la mantenuta, di venire ad abitare a casa tua, di fare cosa? Stare lì ad aspettarti quando ti degni di tornare a casa? Farti trovare la cena pronta e le pantofole?"
"Ma mantenuta di cosa? Ma Eleonora stai bene? Stai sentendo le parole che escono dalla tua stessa bocca? Mi dici quando, non solo oggi, adesso, ma in questi mesi io ti abbia mai detto o fatto capire che voglio una donna che stia a casa a prepararmi la cena? Guarda, se è uno scherzo, è durato abbastanza".
Salta giù dal letto e cammina nervosamente su e giù per la stanza, nudo.
"Tra l'altro, se ti danno una supplenza ad Amatrice o in qualche altro paese in culo al mondo, tu col cazzo che torni a casa la sera, al massimo i week end,  quindi che cazzo stai dicendo?"
"Non voglio dipendere da te, è così difficile da capire? Non voglio niente da te, non voglio che tu mi paghi niente!"
"Eleonora, cerca di ragionare, io non ti sto pagando niente, è la mia casa, punto e basta. Ma quante persone avrai conosciuto pure tu, che quando hanno iniziato a convivere hanno abitato nella casa che era già di proprietà di uno dei due?"
Si ferma e mi guarda.
"È quello il problema Eleonora, la convivenza? Guardami per favore. Guardami, cazzo!"
È furioso.
"Hai cambiato idea? Non vuoi vivere con me? Non vuoi più sposarmi Eleonora? Mi rispondi cazzo?"
"Io non è che non voglio sposarti Giuseppe..."
"Ah no? Beh, non mi sembra che stia facendo i salti di gioia, visto che la sola idea di venire a casa mia ti fa orrore".
"È che penso che sia un errore".
"Un cosa? No, guarda, non voglio più sentire una parola, anzi non voglio proprio vedere la tua faccia". Arraffa un pantalone della tuta e una maglietta e si riveste di furia. "Mille volte meglio il divano di merda del mio studio piuttosto che stare un minuto in più qui con te".
Esce dal suo appartamento sbattendo la porta con una violenza tale che lo schianto rimbomba per tutto il palazzo, a quell'ora della notte.

Io acchiappo il cellulare e chiamo Giulia.
"Vienimi a prendere, per favore".
"Eleonora? Che cosa è successo? Dove sei?"
"Sono a Chigi, vienimi a prendere, io inizio a scendere".
"Ma è successo qualcosa? Stai male? Giuseppe sta male? Mi vuoi parlare porco cazzo?"
"Vienimi a prendere Giulia!". Sono isterica. "Vienimi a prendere!"
"Prendo la bambina e arrivo. Cerca di calmarti".

Mi rivesto, scendo le scale a rotta di collo, scalza. I pantaloni, troppo lunghi senza il tacco 12, strisciano per terra lungo tutta piazza Colonna.
Novella Cenerentola, le mie scarpe d'argento sono rimaste a casa del principe.

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