Ottantasette

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Mi sveglio prima del cicalino del cellulare. Ho dormito male tutta la notte, sono molto nervosa per oggi e il fatto di non aver manifestato le mie paure con Giuseppe ovviamente non ha fatto altro che aumentarne l'intensità. Mi giro e vedo che anche lui è già sveglio e mi sta guardando.
"Ehi, che ci fai già sveglio".
"Niente, ho fatto un sogno".
"Un incubo? Se ti sei svegliato..."
"No, era un sogno bellissimo, ho sognato te".
"O mamma, mi dispiace per te".
Mi accarezza una guancia. "Ci stavamo sposando ed eri vestita di bianco".
"Mi corre l'obbligo di ricordarti che siamo già sposati e che è un tantino presto per l'Alzheimer".
"Puoi dire tutte le scemenze che vuoi ma non mi fermi". Mi bacia leggermente le labbra.
"Più che altro non ho capito dove vuoi arrivare, davvero".
"Nel sogno c'erano tante persone attorno a noi e stavammo festeggiando il nostro matrimonio. Era una festa bellissima. Non ti piacerebbe una festa per il nostro matrimonio?"
"Non lo so... non ci ho mai pensato. A me è piaciuto come è stato, sono uscita la mattina da casa e ne sono tornata la sera sposata, così d'emblée".
"Ok, ma non ti piacerebbe festeggiare con le persone a cui vuoi bene?"
Sto un po' in silenzio, rifletto sulla questione.
"Mh, forse sì. Festeggiare è sempre bello. Solo che è un casino, i miei sono da una parte, i tuoi da un'altra, gli amici di entrambi sparsi in giro..."
"Va beh, se dovessimo decidere di farlo la organizziamo per bene. Ma a te andrebbe?"
"Devo per forza mettermi un abito bianco? Non mi ci vedo con l'abito bianco. Oltrettutto con le attività a cui ci dedichiamo tra queste lenzuola lo riterrei decisamente poco appropriato".
"L'abito lo decideresti tu, ovviamente, l'importante è che si capisca che sei tu la sposa", sorride.
"Allora?", mi chiede.
"Vediamo che si può fare, però dopo che Amir sarà stabilmente con noi ok?"
"Ok. Nervosa per oggi?"
"Abbastanza, grazie".
"Andrà tutto bene".
"Questa frase l'ho sentita un po' troppo nei mesi scorsi".
Mi bacia. "Prepariamoci che la giornata sarà lunga".

Durante il viaggio per raggiungere il centro non riesco a stare ferma un minuto. Muovo la gamba in continuazione, parlo, gioco con una penna a scatto che fa clic clic clic a ripetizione.
"Mi stai facendo venire il mal d'auto", mi dice a un certo punto Giuseppe.
"Scusa".
"Stai tranquilla", mi poggia una mano su una gamba e mi basta sentire il suo calore per calmarmi.
Arriviamo al centro. Mentre scendiamo dalla macchina mi volto verso di lui e gli dico: "Scordati l'abito bianco".
"Mettiti un po' il cazzo che ti pare", mi risponde col sorriso amabile che tutti conoscono, mentre elegantemente mi sospinge verso l'interno appoggiandomi una mano sulla schiena.

Dopo aver parlato per un'ora circa con la responsabile del centro, la psicologa e un altro discreto numero di persone, andiamo finalmente da Amir.
Sta giocando con una delle volontarie. Lo vedo da lontano e mi sembra cresciuto, sono contenta. La ragazza ci vede e fa in modo che il bambino si volti verso di noi. Ci riconosce e batte le manine. Io prendo le macchinine che gli ho portato, mi accovaccio e le lancio verso di lui, che si mette a correre per prenderle. Non riesco a trattenermi e quando è vicino a me, che sono seduta a terra, lo acchiappo e lo stringo forte, e lo riempio di baci. Sono preparata al fatto che si divincoli e scappi, dopotutto è un bambino di poco più di due anni che ha appena avuto in regalo delle macchinine nuove, che preferisce sicuramente alle smancerie, ma non lo fa, rimane a farsi coccolare per un pochino mentre Giuseppe si unisce a noi sul pavimento.
Rimaniamo per almeno un'ora noi tre soli, seduti per terra, a giocare con i modellini, a lanciarceli, a far finta di non riuscire a prenderli facendo la faccia triste, a ridere quando invece fingiamo di rubarceli. Dopo un'oretta veniamo raggiunti dalla psicologa e da un assistente sociale, un ragazzo dalla barba e capelli rossissimi, sembrerebbe irlandese, se non fosse che scopriamo che è sicilianissimo e simpaticissimo. Loro osservano le nostre interazioni senza intervenire, soprattutto osservando con attenzione Amir e le sue reazioni.

Quando arriva l'ora del pranzo per i bambini, chiedo di poter dar da mangiare io a Amir, con Giuseppe ovviamente, perciò ci fanno sedere in un tavolino per conto nostro. Giuseppe tiene in braccio il bambino e io lo imbocco. Il suo lauto pasto prevede semolino, omogeneizzato di carne e un po' di frutta cotta e schiacciata. Ancora ha problemi col cibo solido, fosse per lui prenderebbe solo latte e per giunta dal biberon, ma pediatra, psicologo e tutti gli altri ovviamente stanno cercando di forzarlo a passare a cibo più nutriente, in pratica deve essere svezzato, anche se con un anno e mezzo di ritardo. Col semolino è una tragedia, non riusciamo a fargliene ingoiare più di due cucchiaini. Ci prova anche Giuseppe ma Amir gira la faccia e serra
le labbra che per aprirle ci vorrebbe un piede di porco. Provo ad assaggiarlo e ha ragione lui, povera stella, è assolutamente insapore, insipido e quasi freddo.
Va un po' meglio con l'omogeneizzato di agnello, ne mangia più di metà, la pera cotta che ve lo dico a fare? La sputa ovunque.
Dopo mangiato deve fare il riposino. Viene a prenderlo una delle operatrici per portarlo nel suo lettino, ma Amir non ne vuole sapere di lasciare i suoi giochini nuovi e andare a dormire, allora le dico: "Me lo lasci, lo faccio addormentare io, poi lo metto nel suo letto". E me lo tengo stretto al cuore, mentre passeggio per il camerone dormitorio, dondolandolo e sussurrando la ninna nanna che mi aveva bisbigliato Giuseppe all'orecchio per calmare il mio pianto, sembra sia passato un milione di anni, alternata alla ninna nanna che mi cantava mia nonna, dicendomi che fosse quella che mi cantava mia madre quando ancora ero nella pancia, dato che non aveva fatto in tempo a cantarmela dal vero. Mentre lui si addormenta a me scende qualche lacrima vuoi per la tenerezza che provo verso questa creatura, vuoi per i miei ricordi, ma niente di grave.

Dopo qualche minuto raggiungo Giuseppe che sta parlando con alcune persone.
"Dorme?"
"Sì", dico io sorridendo.
"Ti va di mangiare qualcosa? La mensa è ancora aperta".
"Sì, volentieri, ho un certo appetito".
Ci dirigiamo verso il self service e una volta scelti i nostri piatti ci sediamo in un tavolino discosto dagli altri. Giuseppe mi accarezza il viso con dolcezza.
"Stai bene?"
"Sì", gli sorrido.
"Sicura?". Le lacrime che nascondo negli occhi, non sono passate inosservate nonostante i miei tentativi.
"Sì, sì, stai tranquillo".
"Va bene. Come l'hai trovato il bambino? Io l'ho trovato cresciuto".
"Sì, cresciuto sia fisicamente che nel comportamento, hai visto come giocava? All'inizio non faceva neanche quello, ti ricordi?"
"Mi ricordo, purtroppo..."
"Sono però preoccupata per il mangiare, ancora si rifiuta".
"Ma no, hai visto che comunque qualcosa ha mangiato? Certo che è poco, e comunque il biberon di rinforzo glielo danno, ma rispetto allo zero assoluto di un mese fa è un grande passo avanti. Non sarai mica la classica mamma che mio figlio non mi mangia niente?", cerca di sdrammatizzare.
"No, no, certo... però...", sorrido, un po' mestamente. Giuseppe mi prende le mani che tengo poggiate sul tavolo, mi guarda, senza dire niente, ma mi bastano i suoi occhi per stare meglio.
"Scommetto che vuoi il caffè", dice.
"Secondo te?", rido.
"Stai seduta, vado io", si alza e torna reggendo due tazzine. "È già zuccherato", mi dice. Forse l'essenza del matrimonio sta nel sapere quanto zucchero mette l'altro nel suo caffè, alla fine.

Facciamo un altro colloquio con la piscologa e il siciliano-irlandese che sono molto positivi. Ci dicono che vedono che Amir reagisce positivamente alla nostra presenza e mostra segni di attaccamento nei nosti confronti. Ci dicono che nel pomeriggio ci faranno fare della attività insieme, attività guidate da loro, e poi ci faranno sapere le loro valutazioni. Se tutto dovesse andare bene si potrebbe pensare a farci trascorrere un intero fine settimana insieme, ovviamente fuori dal centro.

Il resto del pomeriggio lo passiamo quindi fra giochi, seppure guidati, e un tentativo di far fare merenda ad Amir, fallimentare. Mi ricordo però di avere una merendina in borsa e provo a fargliene mangiare un po'. Lo so, è una roba industriale, piena di zuccheri e conservanti e dio solo sa cos'altro, ma 'sto ragazzino deve mandare giù qualcosa di solido, e pezzettino dopo pezzettino riesco a fargliene mangiare un po'. Giuseppe sorride.
Quando si avvicina l'ora in cui noi dobbiamo ripartire per Roma, torna la psicologa con ben due volontarie e riescono a coinvolgere Amir in giochi insieme a loro e ad altri bambini, in modo da distrarlo e permetterci di andare via senza che lui se ne accorga.
"È meglio così, signora, si fidi", mi rassicurano e io mi faccio praticamente trascinare via da mio marito, con la rassicurazione che ci avrebbero fatto sapere al più presto per l'eventuale week end.

In macchina piango, quasi subito.
"Ehi, dai, perché? È stata una bella giornata, è andato tutto bene e vedrai che ce lo faranno prendere per il fine settimana".
"Sì, scusami... sto solo scaricando le emozioni della giornata. Sto bene, adesso passa".
Giuseppe mi abbraccia, forte.
"Non vedo l'ora di essere noi tre assieme, quattro con Niccolò. Siete la mia forza, Eleonora, la mia vita".
Lo abbraccio e gli poggio la testa sul petto. Mi lascio cullare dal battito del suo cuore, confortata dal suo calore.

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