1.12 Jeanne

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A Marvis, l'ora di punta non cessava mai. Le colonne di auto a energia nucleare incedevano lungo tutte le vie principali a suon di urla e clacson sparati a ripetizione. I fari incastonati nei cofani squarciavano il buio, si confondevano tra i led dei palazzi e il neon dei lampioni-droni che fluttuavano ai lati della strada. A ogni passo che muovevano, i volti di Caspar e Will erano investiti da colori cangianti: a volte erano gialli come i fanali delle macchine; a volte rosa, come le luci al neon dell'insegna di un night club; altre ancora verdi, come i semafori in funzione. La città era un caleidoscopio, una confusione frenetica che la faceva sembrare un'accozzaglia di suoni, voci, sfumature cromatiche. Caspar gli aveva raccontato che una volta la città era popolata da criminali e gente poco allineata alle regole del Sistema. Eppure, in lei, Will scorgeva ancora una vena anarchica, una caotica miscellanea di disordine. Lo riusciva a percepire dagli uomini e dalle donne che gli si affiancavano di tanto in tanto, dal modo circospetto in cui si guardavano intorno e da come esaminavano lui e Caspar, come se avessero compreso che loro non fossero di lì.

Caspar camminava di fianco a lui, silenzioso. Avevano continuato a parlare per un po' degli argomenti più disparati, Will gli aveva parlato dell'università, di quello che aveva studiato, del suo sogno di diventare ingegnere aerospaziale. "Volevo esplorare lo spazio, ma senza fucile di ordinanza e altre cose del genere."

"Volevi?"

Annuì. "Beh, adesso la mia università è distrutta e... sai, ho deciso di arruolarmi, perciò per un po' dovrò accantonare questo desiderio."

"Ma, Will, sei davvero sicuro di voler arruolarti? Esistono molti altri modi di servire la Congrega, non devi per forza entrare nell'esercito." Caspar tentava di nascondere un leggero disprezzo nel suo tono di voce, non sapeva cogliere verso chi fosse rivolto.

Ripensò alla promessa che aveva fatto a Dakarai, a Theodore e a sua madre, il suo giuramento di vendicare tutti quanti. Era il suo modo per chiedere loro scusa di essere rimasto in vita.

"Devo per forza, Caspar. Non c'è altro modo."

"Senti, capisco come ti senti. So che sei arrabbiato, vuoi fare giustizia e pensi che questa sia l'unica maniera. Ma non lo è, fidati. Ci sono modi migliori per ricordare i tuoi amici e..." si bloccò.

Sulle prime, Will non provò altro che irritazione, uno strano pizzico alle mani. Le parole di Caspar continuavano a rimbombargli nel cervello, lapidarie. Se si fossero trovati in carne e ossa davanti a lui, era sicuro che anche Cassandra, Dakarai e Theodore avrebbero giudicato in egual misura la sua presa di posizione ma, nel figurarsi i loro volti, l'irritazione divenne  tristezza. Era solo, smarrito in una città troppo grande in compagnia di un uomo che pretendeva di conoscerlo meglio di quanto lui conoscesse sé stesso.

Per quanto avesse imparato a fidarsi, Caspar non possedeva la saggezza di Dakarai, né il senso dell'umorismo di Theodore, figuriamoci essere come sua madre. Voleva sostituirsi a ognuno di loro, ma non sapeva bene in che modo muoversi. Si prendeva gioco di lui e al tempo stesso cercava di essere un amico; criticava ogni presa di posizione e al contempo assecondava ogni dubbio; sembrava disprezzarlo e talvolta lo trattava con sufficienza, ma c'erano momenti in cui lo guardava in un modo che gli ricordava quello di Cassandra quando tornava a casa da lavoro o come quello di Jeanne quando l'aspettava nello spazioporto. Lo sguardo di un genitore.

Caspar lo guardava indecifrabile, un sorriso sornione stampato sul volto. "Senti, che ne dici se per un attimo mettessimo da parte tutta questa storia della guerra? In fondo, la navetta per Marte partirà tra qualche ora, possiamo fare altro nel frattempo."

"Tipo?"

Non rispose. Lo afferrò per un braccio e ripercorse la strada a ritroso, lo trascinava con malagrazia, senza neanche curarsi dei corpi che urtavano al loro passaggio.

Kepler 442-BDove le storie prendono vita. Scoprilo ora