1.13 Alicante

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Il sogno che fece quella notte iniziò in modo confuso, anche se paragonato a quelli che era solito fare negli ultimi tempi. La prima scena che si proiettò nella sua mente fu la figura di un mostro, simile a una creatura degli abissi dalle proporzioni mastodontiche, così gigantesca che ogni cosa nelle immediate vicinanze erano oscurate dalla sua presenza. Gli enormi occhi rossi, due fanali di pericolo che lampeggiavano minacciosi, lo osservavano, la loro luce oscura squarciava il buio dello spazio. Alcuni tentacoli della creatura, otto spire ondulate che gli cingevano la testa in una spaventosa corona di ventose, emergevano come tante radici dal terreno brullo e cinereo di un pianeta che Will non aveva mai visto prima.

Jeanne stava in piedi davanti al mostro, la vedeva di spalle, minuscola al confronto con l'enormità che scrutava imperturbabile entrambi. La creatura rimaneva immobile, non emetteva neanche un singolo respiro, né tentava di far strisciare verso di loro uno dei suoi tentacoli. Se non fosse stato per quegli occhi, così vivi e così intensi, Will avrebbe giurato che si trattasse di una scultura o la carcassa di un animale.

Sua madre avanzava verso il mostro, con passo incerto e claudicante. Si trascinava a stento su una sola gamba, l'altra invece non sembrava più rispondere ai comandi, come se si fosse arresa e si fosse lasciata trasportare inerme dal resto del corpo. Si reggeva il braccio con una mano, nel tentativo di tappare una ferita il cui sangue inzuppava di un colore vermiglio l'uniforme.

Una morsa lo prese dalla bocca dello stomaco, la vista si appannò e i contorni del paesaggio intorno a lui mutarono: il cielo nero sparì e, con esso, anche gli enormi occhi rossi della creatura. Si ritrovò all'interno di una stanza che, fatta eccezione per una brandina attaccata a una parete spoglia, con un materasso bitorzoluto buttato con noncuranza sulle maglie del letto, era priva di ogni decorazione. Vide Caspar, a Will diede l'impressione che fosse poco più che adolescente, mentre abbracciava una ragazzina un po' più bassa di lui, i lunghi capelli castano chiaro raccolti in una treccia. Era scossa dai singhiozzi, Will la sentiva tirare ogni tanto su con il naso, per poi riprendere a piagnucolare contro la spalla del ragazzo. Caspar le accarezzava i capelli, la mano le sfiorava appena alcune ciocche che erano riuscite a liberarsi dall'acconciatura.

Guardò meglio il viso della ragazza e s'impresse qualsiasi dettaglio riuscisse a captare di lei, dagli occhi lucidi, fino alle labbra tremolanti. Una sensazione di nostalgia lo invase, ma tentò di ignorarla. Quella davanti a lui, seppur più giovane rispetto a com'era abituato a vederla, era Cassandra. Avrebbe voluto toccarla, ma temeva che interagire con loro avrebbe rovinato tutto quanto. Rimase a osservarli in silenzio, nell'unico modo che Will aveva di rivedere sua madre ancora una volta.

"Portami," continuava a singhiozzare, "via di qui", un mugolio, poi una serie di parole che gli risultarono incomprensibili. "Caspar. Ti prego."

Avvertì di nuovo il senso di nausea che gli attanagliava lo stomaco. Era come se qualcuno gli mordesse le viscere. Inarcò la schiena e si avvolse le braccia intorno all'addome, nell'illusoria speranza che quella sofferenza cessasse al più presto. Nel momento in cui aprì la bocca per urlare dal dolore, percepì la sua vista annebbiarsi, l'immagine dei due ragazzi davanti a lui che si dissipava. Will scosse la testa e si sforzò di focalizzarsi il più possibile su quell'immagine, come se quell'unica azione fosse sufficiente per farlo rimanere lì, aggrappato in chissà quale momento passato di sua madre. Per un po', un torpore leggero alleviò il dolore e la visuale parve tornare lucida. Fu in grado di osservare solo un'ultima scena, Caspar che attraversava con tutto il braccio la schiena di Cassandra, la presa su di lei che s'intensificava, l'allaccio disperato di un uomo che soffriva, ma che non osava spingersi più oltre di così. "Farò tutto il possibile pur di proteggerti, Cass."

La morsa stritolò il suo stomaco e a quel punto gli fu impossibile mantenere la concentrazione. Lasciò andare la presa, mentre le sue membra iniziavano a intorpidirsi e la testa a girare. Il senso di oppressione che avvertiva nell'addome, presto raggiunse il petto e poi il capo. D'istinto chiuse gli occhi e, quando li riaprì, si rese conto che la scena era cambiata un'altra volta.

Kepler 442-BDove le storie prendono vita. Scoprilo ora