1.14 Marte

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"Ehi, mamma, guarda laggiù!"

Quando abitavano tutti insieme nella base di Armstrong, Margherita non avrebbe mai prestato la giusta attenzione a quel richiamo. Si sarebbe limitata a buttare una celere occhiata a uno dei tre figli che aveva reclamato la sua attenzione e poi, distratta da tutto il resto, avrebbe liquidato la cosa con un "Sì sì, ho visto, tesoro. Bello."

La sua deformazione professionale le suggeriva l'esatto contrario. Dare attenzione ai figli, anche nell'assecondare le loro osservazioni più infantili, è fondamentale per la loro crescita, le avrebbe consigliato perentoria la sua professoressa di pedagogia sulla Terra, e lei sarebbe stata la prima a darle ragione, negli anni in cui i figli non c'erano ancora e la vita sembrava molto più semplice. Ma poi quei figli erano diventati reali, non erano più solo delle figure astratte su cui imbastire lezioni di psicologia infantile. Insieme a loro, erano subentrare le responsabilità e su Armstrong aveva sempre troppe cose a cui pensare: il lavoro, la casa da rassettare, i doveri verso la comunità da portare avanti. I compromessi venivano da sé; aveva barattato il tempo da dedicare loro con tutto quello che vi gravitava attorno. Il giusto mezzo per farli vivere bene, pensava.

Con la guerra, però, le priorità erano cambiate. Non aveva più un lavoro da svolgere, né una casa da tenere in ordine. Era stata sollevata dai suoi doversi nei confronti della comunità, perché essa non esisteva più. Armostrong era esplosa sotto ai suoi occhi mentre fuggiva via con le scialuppe di salvataggio, un unico, improvviso raggio laser che aveva squarciato la struttura a metà, un lampo arancione che le aveva bruciato le retine.

Quei bambini erano tutto ciò che le era rimasto. Perciò quel giorno, su Ganimede, Margherita si voltò a guardare ciò che suo figlio minore aveva indicato da fuori la finestra, il naso all'insù e il dito ancora puntato verso il cielo. E ciò che vide fu la materializzazione del tormento che ormai la torturava ogni notte, nel suo giaciglio improvvisato nel campo profughi del satellite. Una flotta di navi da guerra, simili a quelle che aveva visto anche in prossimità di Armstrong, si stavano abbassando in volo, nere come ombre di morte.

Spalancò la bocca, ma le uscì solo un filo di voce, così terrorizzata che anche le sue urla si rifiutavano di venir fuori. Afferrò suo figlio per una spalla, prese in braccio l'altro e cominciò a chiamare a gran voce la terza.

"Rita! Rita, dove sei?" gracchiante, mentre tentava con tutte le sue forze di rimanere padrona delle sue azioni.

Venne urtata da un altro rifugiato, che si era scagliato insieme a tutti gli altri verso una delle uscite di sicurezza. Ovunque si sollevarono suoni di latrati e lamenti; lo spettro di ciò che ognuno di loro aveva vissuto almeno una volta nei precedenti mesi di guerra, si era materializzato ancora una volta sotto i loro occhi impotenti.

Rita, sua figlia, era al centro della stanza, immobile. Guardava terrorizzata gli altri che scappavano, cercava la madre mentre si guardava intorno con gli occhi spalancati e colmi di paura. Mani che afferravano l'aria, voce che chiamava, inascoltata, lei: Margherita.

Avvertiva, fastidioso nelle sue orecchie, il ronzio sempre più prossimo di motori di astronavi che volavano sopra le loro teste. Il suono nasale delle sirene in allarme si propagò in ogni luogo: nella loro stanza, tra le scale dell'uscita di sicurezza, fuori in strada, tra i palazzi al neon e le luci vivaci di Marvis.

Non appena i suoi occhi rilevarono la presenza di sua figlia, si precipitò contro di lei e l'afferrò in corsa per una mano.

"Corri, Rita! Dobbiamo andare!"

Scappare ancora una volta, nella speranza che questa sarebbe stata l'ultima. Su Armstrong suo marito era morto; loro, invece, erano stati graziati da chissà quale divinità benevola. O forse, era stata solo un'illusione, e colui che li aveva portati in salvo in realtà non era che un essere malvagio, il cui obiettivo era quello di prolungare le loro sofferenze.

Kepler 442-BDove le storie prendono vita. Scoprilo ora