Capitolo 3

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Abbiamo mangiato la torta. Le mie amiche hanno ripreso a ballare, il ghiaccio si è sciolto e hanno fatto amicizia. È mezzanotte passata, voglio tornare a casa. Esco un attimo sulla terrazza a respirare un po' d'aria fresca e a riprendermi da un certo turbamento. Di sotto, si vede il mare, scuro come un'enorme pozza d'inchiostro. Non c'è neanche la luna, ma poco distante, abbagliano tutte le luci del porto. Mi sento stordita, non ricordo una serata come questa da molti anni, o forse mai. Mi sento bene e me ne dispiaccio, perché so che Bruno sta a casa da solo.

Qualcosa di leggero mi sfiora le spalle. Mi volto, sobbalzo.

«Non dovresti essere dentro a festeggiare con le tue amiche, Alba?» Poggia una mano sul muretto che chiude la terrazza, con l'altra tiene un calice. Guardo il braccio teso, la muscolatura in evidenza, la serie di braccialetti in cuoio sul polso, sul dorso della mano noto un tatuaggio, ma non saprei dire cosa raffiguri. Il ritmo della voce è pacato. Lo guardo per un attimo, poi mi volto di nuovo verso il mare «Sono stanca, adesso me ne vado a casa».

«Te ne vai di già?»

«È tardi e sono in motorino».

«Non vorresti un passaggio?» Si sta davvero interessando a me? Non so se sentirmi lusingata o preoccupata.

«Lasceresti la tua mora qui? Dai, non è gentile». Ho scelto una terza opzione, il sentirmi indignata. Si gira anche lui ad affacciarsi. Poggia il calice sul piano del muretto.

«Lascia stare Antonella, non è la mia mora». Oh, Antonella, che nome innocente per una sfacciata come lei.

«E allora cos'è? Abitualmente ti slinguazzi ognuna con cui balli?» Gli rivolgo una veloce occhiata fulminante, solo per un attimo. Perché sto entrando in questo argomento?

«Ognuna no, con te non l'ho fatto».

«Hai fatto peggio, mi avete messa in mezzo senza chiedermi il permesso».

«Lei è fatta così, le piaci».

«E gli piaci anche tu? Siete strani»

«Che cosa c'è di strano a prendersi qualcosa che ti piace, tu non insegui mai il tuo piacere, Alba?» Le ultime parole le pronuncia con esagerata lentezza. Il suo tono mi sembra di scherno. È irritante.

«Io inseguo le cose normali, sono quelle che mi danno piacere».

«Eppure, stasera ti sei divertita e io credo, che avresti potuto divertirti ancora di più». Continuiamo questa conversazione senza guardarci, mantenendo l'attenzione davanti a noi.

«E in che modo? Assecondando la vostra depravazione?»

«Depravazione... Che parola pesante. Ho l'impressione che tu ti diverta poco, Alba». Quando pronuncia il mio nome, con quel tono ambiguo, mi mette addosso una certa agitazione. Si è avvicinato, adesso mi sta guardando, lo percepisco con la coda dell'occhio e, sulle ultime parole mi passa, leggera, una mano sui capelli. Mi allontano di mezzo passo.

«Sono bellissimi questi capelli» fa una pausa, ci guardiamo «e balli davvero bene» aggiunge con un tono di voce più basso. Per un attimo mi sento i brividi poi, penso che sia una gran canaglia che sa come confondere le ragazze.

Non voglio dargliela vinta. «Fanno parte della mia normalità. Grazie per lo champagne» mi giro per rientrare nella sala.

Lui rimane lì, immobile. Quando sto per varcare la soglia, sbircio con la coda dell'occhio nella sua direzione, sta languidamente appoggiato al muretto, una mano in tasca, l'altra allungata sul bordo del muro, ha ripreso il calice.

«Anche tu balli piuttosto bene» aggiungo, e prima di sparire dentro, noto sulle sue labbra un sorriso accennato. Non deve essere abituato a quello che è appena successo, penso.

Raggiungo le mie amiche e comunico loro che sto per andare. Le trovo concentrate a chiacchierare con i ragazzi di prima.

«Di già? » mi chiede Livia. «Di già» rispondo io. Le abbraccio tutte, saluto e imbocco il corridoio per l'uscita. Alla fine, la mia serata è stata anche la loro.

Sono molto accaldata, nonostante l'aria frizzante della notte che mi sbatte in viso e scompiglia i capelli mentre il mio dueruote avanza a fatica per evitare la strada dissestata.. Mia madre mi rimprovererebbe per non essere abbastanza coperta. Provo ancora una certa elettricità per la serata appena trascorsa. Tutto quello che è successo mi è piaciuto ma mi ha anche turbata, forse perché non sono abituata. In fondo, io conduco una vita semplice, fatta di impegno per lo studio, la ricerca di esperienze utili e pure.

Le parole di Francesco mi risuonano dentro, la sua voce copre il rumore del vento e del motorino, e quel modo di guardarmi, il contatto con lui mentre ballavamo.

Ha detto che ballo davvero bene, sarà stato un complimento sincero? O ambiguo?

Quanti anni potrà avere ventitré, ventiquattro? Sembra così diverso da me, così scaltro, abituato a una vita trasgressiva e sregolata. Sono i soldi che fanno questo effetto. Chi deve fare sacrifici per andare avanti non ha il tempo da sprecare in certi divertimenti, come li chiama lui.

Quelle immagini non mi abbandonano, mi sento ancora addosso le sue mani.

Sono quasi arrivata a casa, ma proseguo avanti, fino all'abitazione di Bruno. Abitiamo ad appena un paio di chilometri di distanza.

Da qui a casa sua una serie di lampioni non funziona. Molti sono proprio spenti, uno o due emanano una luce tremolante. A pochi metri dal suo cancello, una fila di contenitori per la spazzatura strabocca; un paio di gatti sono concentrati a cercare degli avanzi. Una mia vecchia compagna che vive a Milano mi ha riferito che da lei, da diversi anni, è in vigore la raccolta differenziata, vale a dire, che ogni cittadino viene dotato di un calendario che prevede il ritiro di materiali diversi per ogni giorno della settimana; anche gli avanzi di cibo. Qui da noi, forse neanche per il terzo millennio. I rifiuti domestici sono uno dei principali business  della mafia. Chissà, se adesso, con un presidente milanese le cose cambieranno.

Quando arrivo alla villetta a schiera, noto una luce tenue alla sua finestra. Forse è ancora sveglio. Cerco qualche sassolino a terra. Ne lancio un primo contro la persiana chiusa. Troppo leggero. Un altro, più forte. Un altro ancora, questa volta il sasso era più grande. Sta aprendo, mi ha sentito.

«Bruno!» Lo chiamo in un sussurro forzato «Fammi entrare». Vedo la sua bocca allargarsi in un sorriso. Scompare dalla finestra per riapparire di sotto, al portoncino. Fa scattare la serratura del cancelletto pedonale. Porto il motorino dentro e poi lo raggiungo. Ci abbracciamo, lo bacio.

«Sei gelata!»

«Ma io sento caldo. Posso dormire da te?»

Ha gli occhi che brillano. «Facciamo piano o si svegliano tutti». Mi tolgo i sandali per non fare rumore. Lui mi prende per mano. Saliamo la scala e raggiungiamo la sua camera.

Appena richiude la porta dietro di sé mi avvinghio al suo collo, glielo bacio, lo mordo.

«Ehi...»

«Non stavi dormendo, no?» Gli dico mentre gli sfilo la maglietta.

«Veramente, no. Stavo un po' in ansia per te» mi dice tra un bacio e l'altro.

«Mi sei mancato». Lo spingo sul letto, mi metto a cavalcioni su di lui. Accarezzo il suo petto alla ricerca di quella sensazione che mi porto ancora dentro. Mi spoglio, abbasso i suoi slip.

«Alba» mormora lui a occhi chiusi. Divoro la sua bocca, gli prendo le mani e le porto su di me. Desidero che mi accarezzi, che mi tocchi. Voglio sentire quei brividi. M'impossesso di lui. La musica rimbomba ancora nelle mie orecchie. Il cuore esplode. Il sangue galoppa nelle vene. Il respiro è accelerato. Tremo.

Quell'Estate sull'OceanoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora