Rose aveva ancora in mente l'eco delle storie di Urchin, quando mise in moto la macchina e percorse il lungo tragitto che la separava da La Serenità. Era il centro di salute mentale più vicina che avessero trovato e che avesse anche delle buone strutture. Ilenia stessa l'aveva visitato più volte: per lei era stato molto difficile cedere le cure del marito a terzi, per quanto sapesse di non poterlo gestire. Alan era tranquillo per la maggior parte del tempo, ma era completamente scollegato dalla realtà e, quando si verificava una delle sue crisi, poteva diventare violento e incontrollabile.
La Serenità era una piccola residenza in periferia, circondata da un ampio parco delimitato da alte recinzioni. C'erano molti alberi, e spesso Rose si immaginava Alan seduto sotto una grande quercia assieme all'operatore sanitario che lo seguiva ovunque, intento ad ascoltare il fruscio del vento.
Rose parcheggiò la piccola Twingo di seconda mano che le aveva prestato Ilenia e scese dalla macchina. Controllò di avere la carta d'identità e avanzò fino a raggiungere il cancello in ferro battuto. Il suono dei suoi stivali sul marciapiede era desolante. Non c'era nessuno per le visite quel giorno, tranne lei. Le case di cura le avevano sempre trasmesso un sottile senso di nausea. Provava un'immensa compassione per tutti coloro che si trovavano fra quelle mura, ma non poteva nascondere a se stessa di averne paura, specie dopo ciò che aveva subito.
Per la maggior parte del tempo Rose cercava di non pensare a suo padre, perché questo la rendeva talmente angosciata che le salivano ancora le lacrime agli occhi. Ma a volte bisognava andare a trovarlo e affrontare il passato, per quanto fosse doloroso.
Rose suonò il campanello e la voce annoiata dell'operatore le rispose attraverso l'interfono. «Buonasera, Residenza La Serenità, cosa posso fare per lei?»
«Buonasera» balbettò lei, guardando nella telecamera in modo che lui potesse riconoscerla. «Sono Rosemary Anderson e sono qui per vedere mio padre. Alan Anderson.»
L'operatore esitò un attimo, poi la sua voce si fece più allegra. «Oh, Rose! Ciao. Vieni pure, arrivo tra due minuti nell'ingresso.»
Dal cancello provenne un debole "buzz", seguito da uno scatto. La ragazza superò il cancello e proseguì lungo un sentiero lastricato che si diramava fra soffici colline d'erba novella, nella quale spuntavano dei fiori invernali. Le foglie secche dei ciliegi spogli ricoprivano il terreno e un giardiniere le stava ripulendo. Quel posto era molto bello in primavera e, se Alan fosse stato ancora in grado di dedicarsi alla pittura come un tempo, ne avrebbe tratto ispirazione.
La Serenità era una struttura molto solida, costruita per essere anti-sismica e offrire ogni sorta di sicurezza. I muri erano dipinti di una riposante tinta ocra tenue, e ogni tanto qualche rondine faceva il nido sotto la grondaia, e si potevano osservare i rondinotti che garrivano sommessamente dalla finestra del secondo piano. Nonostante tutta l'attenzione e la cura che venivano date a quel posto, c'era un non so ché di vuoto che Rose non riusciva a spiegarsi. Lo percepiva come spersonalizzato, senza un'identità, forse quel posto non rifletteva la personalità dei propri abitanti, che l'avevano persa nei meandri della propria mente, e ciò rendeva il luogo alieno, malgrado tutti i comfort.
Rose trovò ad aspettarla nell'ingresso l'operatore che le aveva risposto al citofono. Lo riconobbe subito: era un giovane di nome Marco, con dei corti capelli castani e gli occhi verde chiaro. L'aveva già visto un paio di volte, ed era sempre stato gentile con lei. Era pieno di voglia di fare e la sua presenza ravvivava l'atmosfera.
«Ciao, Rose. Tutto bene? Alan chiede sempre di te, cara.»
«Ciao» mormorò lei, con la bocca impastata. «Sì, sono solo un po' agitata. Anche io sono contenta di essere finalmente riuscita a passare. Se fossi a casa, verrei più spesso, ma nel periodo delle lezioni non posso proprio, dato che sono...»
«In Scozia, sì. Me lo ricordo» completò Marco, rivolgendole un sorriso.
Rose annuì. Non credeva che se ne sarebbe ricordato.
Il ragazzo la condusse lungo i corridoi de La Serenità. Quel luogo all'interno sembrava una casa degli anni novanta, con tanto di vecchie cornici appartenenti ai residenti, divani di un beige pastello e plafoniere dalla luce gialla.
«Come sta?» chiese Rose, riluttante. Non le piaceva fare quella domanda, perché restava delusa ogni volta. Di solito sviavano la risposta e le proponevano una versione edulcorata della situazione per tentare di rinfrancarla.
«Ci sono stati dei leggeri miglioramenti. Alan partecipa di più alle attività di gruppo e, quando gli si parla, risponde con più prontezza. Ogni tanto comincia lui stesso le conversazioni, il che è un passo avanti. E' da novembre che ha cominciato ad aprirsi, parlando con più calma delle sue allucinazioni. Un tempo non si esprimeva nemmeno al riguardo, ma penso di essere riuscito a guadagnarmi un po' la sua fiducia, e che questo l'abbia spinto a confidarsi con me. Io mi limito ad ascoltarlo, e Alan apprezza.»
Rose sgranò gli occhi. Durante l'ultima visita prima di partire per la Scozia suo padre a stento l'aveva guardata, limitandosi a borbottare di luci verdi che gli dicevano cose.
«Molto bene. Allora sei tu a occupartene?»
Rose non osava chiedergli se fosse sulla via della guarigione. Da tempo aveva smesso di sperare in modo eccessivo. Tutto ciò che desiderava era che suo padre potesse recuperare abbastanza lucidità da tornare a casa, anche se non sarebbe mai più stato l'uomo dalla mente fervida che dipingeva scorci su mondi surreali.
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Mundbora - L'ombra degli antichi
Fantasy"Non ci si dovrebbe fidare delle fate. Sono creature volubili e non hanno gli stessi canoni morali degli esseri umani. Non gli importa di niente, il loro unico desiderio è divertirsi il più possibile. Non lo fanno per malvagità, ma perché non capisc...