(R) Capitolo 3: L'antro del Mundbora

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Una melodia cantata a bocca chiusa si diffuse nell'aria come un profumo e arrivò a stuzzicarle le orecchie.

Rose sollevò le palpebre e restò accecata dalla luce delle candele. La sua gola era arida e il corpo pesante, come se i muscoli si fossero trasformati in pietra mentre dormiva. Ci mise un po' per capire che non si trovava nella sua stanza: era distesa su un giaciglio imbottito di paglia che non aveva nulla a che fare col morbido letto dello studentato, e infatti la sua schiena si stava già lamentando con la direzione.

Il letto era incastrato sul lato destro di un antro dal soffitto irregolare, dal quale pendevano mucchietti di piume colorate, perline di legno e portafortuna che tintinnavano leggermente. La luce calda delle candele si ergeva su cera distorta, modellata da mani esperte in forme convolute. Il pavimento di terra umida era costellato di gocce opache, fra cui affioravano germogli di piantine. In un angolo c'era un cespuglio di lavanda, in un altro del peperoncino, e poi della salvia, e del biancospino. A Rose sembrava quasi di aver rimesso piede nel laboratorio di sua madre, dove i profumi si mescolavano in un unico, stordente odore.

La stanza ospitava un immenso tavolo da lavoro ricoperto di ampolle e alambicchi contenenti erbe messe al macero, più un calderone in rame. Poco lontano dal letto c'era un focolare delimitato da delle pietre viola; una pentola fissata a dei supporti in ferro battuto borbottava sommessamente, e da essa proveniva un profumo di cibo che Rose non riusciva a classificare.

Myrddin era di spalle, intento a canticchiare e a tagliare qualcosa sul piano da lavoro. I bizzarri vestiti con cui si era presentato nel mondo esterno erano scomparsi, sostituiti da una tunica rossa che gli arrivava a metà coscia. Delle piccole luci volteggiavano attorno alla sua testa, e alcune si erano sedute fra i suoi capelli o sulle lunghe orecchie dalla forma a goccia. Rose era sicura di non averle viste il giorno in cui si erano incontrati, e si chiese se non stesse cominciando a dare le traveggole. Probabilmente la sua mente si era arresa già da un pezzo e ora si trovava in una clinica psichiatrica. Era una tradizione di famiglia ormai, e quel pensiero la stupì meno del dovuto.

«Certo, piccolina» sussurrò Myrddin, rivolgendosi al nulla.

Rose aggrottò le sopracciglia. Ottimo, stava parlando da solo. E dire che gli aveva dato il beneficio del dubbio riguardo la sua sanità mentale.

«No. No, non è cattiva» continuò l'uomo, ridacchiando. Sempre che potesse essere definito uomo, con quelle sue orecchie asinine e l'occhio da mantide. Forse era davvero uno strano agglomerato lovecraftiano, e Rose aveva avuto la sfortuna di aver suscitato il suo interesse. «L'ho salvata al limitare di Avalon. Oh, ancora? Ti ho detto che sto bene, non mi sono fatto niente. Ho epurato quell'Unholda e poi mi sono occupato di quello che aveva... cosa? Si è svegliata?»

Myrddin si girò e alcuni sbuffi luminosi caddero dai suoi capelli, emettendo dei lievi gridolini. Gridolini? Erano vivi? Rose si era immaginata ogni sorta di assurdità nel corso della sua vita, ma non le era mai venuto in mente di creare dei parassiti dorati che nidiavano nei capelli.

«Buongiorno, bambina.» Myrddin lasciò perdere il suo lavoro e le sorrise. Appoggiò un coltello dalla lama d'argento sul tavolo e si sedette accanto al letto. Rose guardò il suo occhio verde col cuore in gola e l'uomo trasse un profondo sospiro. «Non preoccuparti, non sono un mostro di Medb. Non più, in ogni caso. E neanche tu lo sei: ho estratto dal tuo corpo il sangue infetto e mi sono purificato nel fiume di Avalon. Adesso sono fresco come il culetto di un neonato.»

Myrddin ridacchiò, poi, vedendo che lei non stava facendo lo stesso, trasse un profondo sospiro.

«Come ti senti?» le domandò. Sembrava sinceramente preoccupato.

Mundbora - L'ombra degli antichiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora