08 - New York

109 11 4
                                    

New York, autunno 2012 (due anni dopo)

Spensi le luci del mio ufficio, un leggero sorriso ad aleggiarmi ancora agli angoli della bocca.
Ci ero riuscito, dopo due anni di gavetta, piena solo di piccoli casi poco redditizi, finalmente i capi del mio studio mi avevano affidato il primo caso importante.

Salutai Geena, la mia segretaria dalle gambe chilometriche  sempre troppo scoperte e mi diressi agli ascensori, pronto a tornare nella mia vuota,  solitaria vita fuori dallo studio legale.

Uscii dal palazzo, all'incrocio tra la Cinquantottesima e la Columbus: la strada era insolitamente deserta, per la città che non dorme mai, ma il freddo di quell'autunno, giustificava a pieno la voglia dei miei concittadini di starsene in un luogo caldo e riparato. Mi strinsi nel cappotto, mentre una folata di vento gelido mi fece volare via il cappello. Mi chinai a raccoglierlo e me lo schiacciai di più sulla testa, stringendomi nella sciarpa color piombo, regalo di una delle tante amanti che speravano di diventare qualcosa di più. Erano quasi le nove di sera ormai. Forse avrei dovuto chiamare un taxi: faceva troppo freddo a New York questa sera; un freddo al quale un uomo della west coast come me, non si sarebbe mai abituato. Troppo freddo, anche per un cuore ormai ghiacciato.

Avrei dovuto chiamare un taxi, ma non lo feci, preferendo aggirarmi lungo le strade spazzate dal vento che si infilava insidioso tra gli alti grattacieli. C'era aria di neve ormai. Mi diressi lungo la Broadway Avenue, direzione Times Square, in cerca della virtuale compagnia di sconosciuti: restio a tornare in una casa asettica e deserta.

Ero solo, in questa città dalle luci sempre accese; solo, in un appartamento in cui non invitavo mai nessuno. Solo, senza un vero amico con cui parlare; solo, nonostante fossi circondato da  troppa gente.

Qualche volta uscivo a cena con alcuni colleghi, altre volte mi scopavo qualche conoscente in un'anonima stanza d'albergo, ma a parte questo, in due anni di permanenza nella Grande Mela, non avevo mai stabilito nessun vero contatto umano. Ero troppo impegnato a far carriera, troppo preso dal mio desiderio di dimostrare a Josh di essere bravo nel mio lavoro, di riuscire crearmi una posizione anche senza il suo aiuto; per avere tempo da dedicare ad altro.

In fondo però, e facevo fatica ad ammetterlo anche con me stesso, la mia famiglia mi mancava.  Mi mancava parlare con mio fratello, con cui i rapporti erano ormai quasi inesistenti; mi mancava mio padre, la sua ferma durezza... Dopo la mia partenza, ormai due anni prima, non avevo più voluto sapere nulla di loro, della storia tra Jamie, Josh e Samantha, degli strani rapporti familiari che si erano creati; avevo preferito accantonare la cosa in un angolo della mia mente, con l'illusione che si risolvesse da sé.

Non avevo più parlato con Sam e raramente avevo chiamato Joshua o Jamie. Ero volontariamente solo.

Mi addentrai in una traversa semibuia, il suono di una tromba ad attirare la mia attenzione: una porta azzurrina, dalla vernice scrostata e dall'aria anonima, a risvegliare la mia curiosità. Mi avvicinai di più (il mio orecchio sempre più cullato dall'interpretazione di Blue in green di Miles Davis) e notai la piccola insegna di un locale: Lost Road jazz club.

Entrai.

In una sera come questa, avevo decisamente bisogno di un buon bicchiere di bourbon e di ascoltare una musica che mi riscaldasse il cuore. Il locale era ancora semivuoto, una cosa piuttosto strana dato l'orario, ma non mi dispiaceva. Le cameriere sarebbero state più disponibili e veloci, se non ci fossero stati troppi clienti da servire.

"Cosa ti porto, dolcezza?" Una voce sensuale e calda assieme, mi riscosse dai miei pensieri spingendomi a voltarmi.

"Sono Christina, ma puoi chiamarmi Chris, sono la proprietaria di questo posto, conosco tutti i clienti abituali... te non ti ho mai visto, sei nuovo di New York?"

Solo un uomo (un uomo solo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora